Critica
Marzia Ratti, Bruno Cordati (1890-1979), Due dipinti per la Fondazione Ragghianti e un sito web dedicato all’artista, in “LUK”, Studi della Fondazione Ragghianti, n.s. 28, 2023.
[…] Gli anni tra i Venti e i Trenta lo vedono dunque doppiamente impegnato sul fronte artigianale e su quello espositivo, nel quale miete rapidi successi culminati nella partecipazione alla Biennale veneziana del 1928. La fama accresciutasi velocemente è attestata anche dal numero a lui dedicato dalla rivista “L’Eroica” nel 1932. L’articolo è di redazione, ma non tardiamo a riconoscervi il lessico e lo stile di Ettore Cozzani, il quale preferisce cedere la parola allo stesso artista piuttosto che articolare il proprio commento, segno di una conoscenza forse non troppo approfondita o, al contrario, di una grossa considerazione. Ad ogni buon conto, l’articolo di Cozzani è doppiamente importante perché ci dà modo di enucleare tredici lavori associati alle tavole in bianco e nero, che possiamo fissare al termine del 1932 come anno limite di esecuzione, il che nella ben nota scarsa cronologia dei dipinti dell’autore ci offre un riferimento sicuro per inquadrare un nutrito corpus di opere che denotano l’adesione alla figurazione novecentista con una ben risolta capacità di controllo dell’intera composizione. Inoltre, il contributo pubblicato su “L’Eroica” restituisce il diretto pensiero dell’artista in quegli anni di vivace intraprendenza espositiva. Dalle sue parole emerge chiara la linea di ricerca che, sostanzialmente, informerà la sua lunga attività di pittore ossia la necessità di trovare una propria via espressiva e di giungere a un’efficace sintesi tra pensiero e azione pittorica, allontanandosi dal virtuosismo e dall’eccesso descrittivo. E’ un pensiero preciso, in cui riconosciamo le istanze di libertà e autodeterminazione di molti artisti che si muovevano nel panorama complesso delle idee del primo terzo del Novecento, agitate dai venti delle avanguardie ancora non spente e da quelli contrastanti del ritorno all’ordine e della ripresa della classicità, che Cordati accoglie con le sue immagini piene di volume e di solennità del quotidiano.
Ma affidiamoci al suo scritto:
«C’è dello smarrimento in arte. Si sta formando una nuova coscienza artistica. Siamo quindi in un periodo di formazione, di trasformazione, di maturazione, nell’affanno della ricerca, molti artisti guardano più agli altri che a loro stessi. Qualcuno ha trascurato completamente la propria personalità e non ha più nessun contatto diretto con la natura.
Il virtuosismo del mestiere non occupa più uno dei primi posti nella scala dei valori artistici. L’artista non si contenta di dare alla sua opera la sensazione del vero. La natura manifestandosi non suggerisce: “Ritrai questo che è bello”; dice invece: “prendi questo e fanne un’opera d’arte”. E l’artista coglie l’idea offerta,l’accoglie con le vibrazioni di tutte le sue parti sensibili, la elabora, facendone una cosa sua.»
Il confronto tra queste affermazioni e le tavole dei dipinti pubblicati su “L’Eroica” trova coerenza con la ‘verità’ dei vari soggetti, siano essi paesaggi, ritratti o figure nel paesaggio. Una linea di sintetismo classico, con immagini decantate e prive di ogni dettaglio superfluo, che esalta le capacità ritrattistiche e luministiche di Cordati, confermate da un altro dipinto di sicura datazione, Il maestro di musica (1936), che oggi è possibile ribattezzare col nome esatto del ritrattato, il musicista Michele Eulambio, probabilmente conosciuto a Gradisca d’Isonzo.
Da tutti questi lavori emana uno sguardo diverso rispetto alla tradizione barghigiana di Magri e Balduini che pure dobbiamo considerare come un dato culturale non eludibile, ma non direttamente influente sul suo linguaggio. A differenza dei due grandi barghigiani orientati alla reinterpretazione in chiave moderna della tradizione ‘primitivistica’ toscana, l’attenzione di Cordati negli anni tra i Venti e i Trenta segue la via della concretezza, focalizzandosi sui temi legati al lavoro, alla vita quotidiana, ai poveri e derelitti, cominciando a incamminarsi verso quella concentrazione sulla tragicità dell’esistenza umana e, in particolare, delle classi più umili che connoterà i lunghi anni del secondo dopoguerra. E’ nei soggetti e negli argomenti affrontati che possiamo semmai rinvenire punti di convergenza poetica con Magri e Balduini e, più in generale, con le tematiche pascoliane dei Canti di Castelvecchio.. Certamente non negli esiti stilistici che per Cordati partono da fascinazioni ondivaghe tra modi scapigliati e atmosfere simboliste, approdano a composizioni di sapore classico reinterpretato in chiave di sospeso intimismo e si aggiornano progressivamente su modalità meno oggettive e dialoganti col fluire continuo di una gestualità libera e interrogantesi.
Dal catalogo della mostra
Bruno Cordati
Fondazione Internazionale “Santi Cirillo e Metodio” – Sofia, aprile / maggio 1990
Paola Paccagnini : Note biografiche
Bruno Cordati nasce a Barga, in Piazza Angelio n. 17, il 9 Febbraio 1890. Il padre Luigi, è muratore; la madre Adele Cecchini, casalinga. Le modeste condizioni della famiglia gli consentono di frequentare solo le scuole elementari, che termina nel 1902. Da ora in avanti la sua formazione resta affidata esclusivamente all’iniziativa personale.
L’attitudine al disegno, che si manifesta in lui precocissima, lo porta intanto a fare i primi esperimenti con le matite e con i colori.
Ancora bambino, si lega d’amicizia ad un pittore d’insegne, un certo Norfini, che lo conduce in giro per le campagne di Barga, mettendolo a parte del suo lavoro con una franchezza e semplicità di modi di cui Cordati serberà a lungo la memoria. “Da lui – dirà più tardi – ho imparato il mestiere”. Adolescente, è poi chiamato da Giovanni Pascoli per affrescare uno stemma simbolico sul muro interno del suo giardino, a Castelvecchio.
Ha così modo di avvicinare il poeta che è ormai il nume tutelare del luogo. Una conoscenza importante, ben oltre la misura della commissione e il valore dell’opera che presto subirà i danni del terremoto e sarà infine occultata da un cattivo restauro; tale comunque, da non rimanere estranea a certa disposizione mentale di Cordati e, soprattutto, alla scelta di ritiro e d’isolamento ch’egli farà propria nella tarda maturità.
Coi soldi che riesce a procurarsi facendo l’imbianchino, si prepara privatamente per l’esame d’ammissione al terzo corso speciale di pittura presso l’Istituto d’arte “A. Passaglia” di Lucca, diretto da Alceste Campriani. I registri della scuola lo danno tra gli iscritti nell’anno accademico ’14-’15, ma la sua frequenza scolastica non va oltre qualche mese. Nel maggio del ’15, poco dopo aver sostenuto l‘esame di abilitazione all’insegnamento del disegno nelle scuole medie – che fallisce causa la prova orale di geometria descrittiva – parte per il Fronte, dove rimane fino alla fine della guerra.
Quattro anni di trincea sul Carso, prima come sottotenente, poi come tenente di fanteria, che resteranno legati al ricordo della pioggia, del fango, della paura, del confronto quotidiano con la morte. Un’esperienza di cui tornerà a parlare di rado, a malincuore.
Ne esce con una medaglia al valore, conquistata sul Piave, e un olio, Soldati al Fronte, che è la prima opera di cui si abbia notizia certa. Ma, soprattutto, con un proposito: dedicarsi interamente all’arte.
Negli anni che seguono, la sua attività si intensifica aprendosi al dibattito culturale contemporaneo, prima in direzione di un cézannismo riformato, poi verso il Novecento. Nel ’32 una sua opera dal titolo postumo, In soggettiva, ottiene l’apprezzamento di Filippo Tommaso Marinetti che ne loda l’invenzione iconografica e lo spericolato gioco prospettico, riconoscendovi una linea di ricerca convergente nel suo programma neofuturista.
Questa è pure l’epoca delle mostre, in cui comincia ad esporre vincendo la naturale ritrosia del carattere. La prima occasione per misurarsi col pubblico gliela offre, nel ’21, l’“Ars Lucensis”, un nobile sodalizio lucchese animato da interessi artistici e letterari.
La mostra, che si apre nella sala dell’Istituto Pacini, accoglie “una trentina di quadri trattati in diverse maniere: ad olio, a pastello”, come informa Alfredo Stefani sul giornale di Barga, “La Corsonna”, vaticinando all’amico concittadino “un avvenire promettente, perché è giovane, ha dei meriti grandi e soprattutto ha volontà di fare”.
La sua risonanza non resta limitata alla cerchia cittadina. Dalla stessa fonte si sa che ottiene largo consenso di pubblico, varie recensioni su (“L’esare” e “Il Serchio” di Lucca, “La Toscana” di Livorno, “La Nazione” e “Il Nuovo Giornale” di Firenze, “Il Messaggero” di Roma) e l’omaggio di un riconoscimento ufficiale: visitando l’esposizione, I’On. Giovanni Rosadi, sottosegretario alle Belle Arti, acquista un pastello, Testa di Bimbo, per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
La strada è ormai aperta. L’anno dopo, in agosto, Cordati è a Bagni di Lucca con una folta rassegna di opere e nel ’23 di nuovo a Lucca, alla I Mostra Regionale dell’Arte e dell’Artigianato curata dall’“Ars Lucensis”. Ne parla Emilio Pasquini sul “Sagittario” di Jenco e Fioretti, scegliendo di recensire, tra quelle dei tanti artisti presenti, l’opera di chi “conosce i lunghi, silenziosi studi della sua Barga pensosa e raccolta”. Per suo tramite si ha così notizia dei quadri esposti: molti di soggetto infantile – “una gran fioritura di bimbi” -, secondo quella che resterà a lungo vena prediletta della sua ispirazione e, accanto a essi, l’Autoritratto. Il primo di una lunga serie cui Cordati affiderà la propria immagine, via via mutata dal tempo e dall’esperienza, insieme alle doti non comuni del suo talento di ritrattista; ma l’unico ad avere in sorte una destinazione pubblica: acquistato dal Comune di Lucca in occasione della mostra, passa al Museo di Villa Guinigi nel ’26.
Le esposizioni lucchesi, coi relativi acquisti, gli ottengono una certa notorietà, vendite e commissioni i cui proventi risultano tanto più necessari ora che non è più solo ma ha la responsabilità di una famiglia. Il 28 dicembre del ’22 si è infatti sposato con Clotilde Costi e nel ’26 ha già due figlie: Bruna e Luigia.
Anche le mostre si fanno più frequenti ed estese, recando il suo nome dentro e fuori le mura di Lucca.
Dal ‘25 al ’30 corrono sei anni di attività espositiva ininterrotta. Nel ‘25 è alla I mostra d’Arte barghigiana della sua città; nel ‘26 a Livorno alla IV Mostra di Primavera di “Bottega d’Arte” con due pastelli (sala A, nn. 6,7) che Gino Belforte definisce “deliziosi per grazia e sincerità”; nel ’27 è a Roma, alla XCIII Esposizione degli Amatori e Cultori – dove presenta un dipinto, Imbronciato (sala X, n.13) – e, con la stessa opera, alla II Esposizione Internazionale di Belle Arti della città di Fiume; nel ’28 è a Torino, all’Esposizione Nazionale di Belle Arti – dove espone In ascolto e Maschietta (sala II, nn. 46, 48) – e alla XVI Biennale di Venezia, con Bambino (sala XXV, n.4); nel ’29 a Lucca, alla Mostra della “Settimana Lucchese” e a Barga, alla II Mostra d’Arte barghigiana; nel ’30 a Firenze, alla IV Mostra Regionale d’Arte toscana, con Lettura (sala A, n.31).
Allo scadere del terzo decennio Cordati ha toccato così alcune delle principali manifestazioni artistiche toscane e nazionali. Riceve numerose proposte d’acquisto e richieste di notizie anche dall’estero, da parte di alcune riviste francesi, ad esempio “La Revue Moderne”, “La Revue du Vrai et du Beau”, che vogliono inserire il suo nome nei loro archivi. Ma il punto di partenza e di riferimento per lui rimane Barga, da cui si allontana solo per tempi brevi, mosso dai nuovi doveri familiari e dal consiglio dell’amico Adolfo Balduini che spesso si trova con lui a esporre. Il tempo è ormai maturo anche per le Personali.
La più importante si apre a Lucca, presso il Circolo Lucchese di via S.Croce, alla fine del 1930. Tre sale per ventun opere, prevalentemente di figura – come dicono i titoli del catalogo e le illustrazioni che lo corredano – cui viene fatta ottima accoglienza sulle pagine del “Popolo Toscano” e del “Giornale d’Italia”. Rino Carassiti vi nota “qualche cosa di elevato, di robusto, di pensato, di vissuto, di studiato, di poderoso che fa andar col pensiero qualche gradino più in su del livello normale della pittura”. Luigi Gualtiero Paolini ammira “la sua squisita anima di artista e le sue invidiabili doti tecniche” e conclude esortando: “Ma esca il Cordati, una buona volta, dalla cerchia lucchese per mostrare in un grande centro – preferibilmente a Roma – l’arte sua. Sarà, crediamo, vantaggio grande per lui e sarà onore per Lucca”.
L’invito, però, non viene accolto. Al contrario: da ora prende il via un programma espositivo concentrato in Toscana. A Barga (Palazzo Comunale, 9-30 agosto 1931), Lucca (Circolo Lucchese, 26 marzo – 10 aprile 1932), Viareggio (Kursaal, 23 luglio – 15 agosto 1932), come informa la cronaca locale, l’unica fonte cui si possa attingere al riguardo. Di un’altra sua Personale, a Livorno, resta invece il catalogo e un più ampio repertorio di notizie. Si tratta della mostra allestita, insieme a Umberto Maestrucci e Corrado Michelozzi, nelle sale di Bottega d’Arte tra il maggio e il giugno del ’31. Curatore del catalogo, inserito nel tradizionale bollettino dell’Associazione, è ancora una volta Rino Carassiti che, presentando le trentotto opere esposte, coglie l’occasione per tentare un ritratto del pittore, ormai quarantenne: “E’ un viso aperto, sul quale vedi ogni emozione, ma non leggi, come tu credi, i pensieri che vi si dipingono con ingenua comunicativa. Ti appare una fronte ampia, incorniciata da capelli più bianchi che grigi, che fanno risaltare il contrasto di un aspetto ancor giovanile con la precoce pioggia candida che suole giungere col primo autunno dell’età. Hai davanti una figura salda, avara di gesti e di parole; non scabra ma rude; non voluta con imperio di nervi e di ragionamento, ma sinceramente schietta”. Il ritratto più completo di Cordati, uomo e artista, è però quello che gli dedica un anno dopo Ettore Cozzani su “L’Eroica”. Il quale molto deve alle puntuali osservazioni dell’autore, ma molto anche al ricco commento illustrativo – vengono riprodotte dodici opere tra le più importanti degli ultimi anni, come Sera barghigiana, Il nipotino, Attesa, Nubi, Riposo – e alla testimonianza del pittore, ripresa dal discorso inaugurale della sua recente mostra barghigiana. Sono gli anni dei massimi successi e riconoscimenti, non solo di critica ma di mercato.
E di alcune commissioni pubbliche: il ritratto di Pascoli per il Comune di Barga; la decorazione a tempera della Casa del Mutilato in Piazza S.Michele a Lucca; il ritratto di Antonio Mazzarosa De Vincenzi, notabile lucchese, per la Cassa di Risparmio della stessa città. Cordati è ormai un pittore affermato. Proprio ora, tuttavia, l’attività didattica, che prende a svolgere regolarmente, lo allontana dalla Toscana.
La notizia di una sua Personale a Lucca in febbraio, presso il Circolo Centro, e il fatto che il suo nome figuri nel comitato promotore della I Mostra Estiva viareggina al Kursaal, inducono a ritenerlo ancora residente a Barga nel ’34. L’anno dopo, invece, è sicuramente a Gorizia, come attesta un suo disegno datato sul posto “3 febbraio 1935” e le opere con cui in agosto si presenta alla Mostra dell’Arte e dell’Artigianato barghigiano: “un buon numero di paesaggi eseguiti da poco sui luoghi della guerra, Montesanto, Sabotino, il Calvario”. Così pure nel ’36, anno a cui risale Il maestro di musica, l’unico dipinto datato che si conosca. Fa ancora una breve apparizione a Lucca nel ’37, alla IV Mostra Sindacale d’Arte – dove espone Giovinetta al balcone (sala II, n.19) –, quindi, su comando del Ministero, lascia l’Italia. Incaricato d’insegnare storia dell’arte e disegno nei licei italiani all’estero, trascorre un anno a Budapest, nel ’37 – ’38, un anno a Parigi, nel ’38 – ’39, quattro anni in Bulgaria, a Plovdiv, dal ’39 al ’43. Anni, a memoria sua e dei familiari, tra i più felici e intensi che gli siano concessi. Insegna, studia, visita gallerie e musei e dipinge.
Soprattutto in Bulgaria, dove il fascino dei luoghi e dei costumi slavi lo porta ad allargare il suo repertorio tematico e a rinnovare la gamma della sua tavolozza, che lascia il monocromo per assumere toni eccezionalmente ricchi e luminosi.
Ma è una parentesi che si chiude presto.
La guerra lo riporta in Toscana, a Barga, nel suo studio della via di Mezzo. Malgrado sia ormai esonerato dal servizio militare e possa seguire gli avvenimenti da civile, l’esperienza bellica lo segna profondamente. Gli allarmi, i bombardamenti, le rovine, la miseria infine del dopoguerra, creano anzi per lui una situazione più traumatica di quella vissuta in trincea, a vent’anni. Da questo momento le tele tornano ad abbrunarsi, mentre il ritmo creativo rallenta.
Cordati continua a dipingere, ma spesso distrugge l’opera dipinta o la sovverte radicalmente, inaugurando una prassi operativa molto laboriosa, fatta di abbandoni, ritorni e replicati interventi, che diverrà costante negli ultimi anni.
A chi, nel ’46, gli chiede di definire il senso della sua ricerca, risponde: “Per me ogni quadro rappresenta soltanto un punto di partenza, o se l’immagine ti piace un piuolo di una scala. Ogni lavoro e una prova, un tentativo di superamento“.
A questa concezione dell’arte, maturata in senso fortemente sperimentale, corrisponde il bisogno di abbandonare la scena pubblica e le competizioni ufficiali.
Negli anni successivi alla guerra cadono le ultime mostre di cui si abbia notizia: la Provinciale d’Arte a Lucca nell’autunno ’45 – dove espone Boggiana (n.23),La soma (n.24), Riposo (n.25) –; il Concorso Nazionale di Pittura “Premio Prato” nel settembre ’46 – a cui invia Le palline (sala C, n.10) -; la Mostra d’Arte Barghigiana nell’estate del ’47.
Poi il ritiro, totale e definitivo, nella clausura di Barga. Qui insegna ancora per qualche tempo presso l’Istituto Magistrale; infine, con il beneficio della pensione, si chiude nelle grandi sale del palazzo Bertacchi che ha in affitto da prima della guerra e che farà suo alla fine degli anni ’60, per dedicarsi interamente alle attività preferite. Legge e rilegge i classici, la Divina Commedia e l’Orlando Furioso, in particolare, ma anche Dostoevskij, Tolstoi, Makarenko e i grandi dell’otto-novecento, Flaubert, Maupassant, Joyce, Musil, Proust; ascolta musica; scrive – un articolo con la sua firma compare sul “Ponte” nel ’51: è dedicato al pittore Alberto Magri, amico e concittadino, ma ha il valore di un autoritratto – e soprattutto dipinge. Incessantemente. Ogni diversivo, ogni benché minima interferenza nel suo lavoro gli diventa intollerabile. Per tutti, e persino per gli amici e per le figlie, ha una sola risposta: non più mostre, non più prolungate assenze dal suo paese e dalla sua casa, non più “tensioni inutili”. L’ultima commissione l’accetta nel ’62, quando esegue il ritratto di Giovanni Carignani per la quadreria della Cassa di Risparmio di Lucca. Ma è un’eccezione, nel complesso delle opere che ormai dipinge solo per sé e per il proprio conforto. La storia dei suoi ultimi trent’anni e interamente affidata ad esse e non ha altra misura che quella del loro succedersi. Tele e tele si accumulano giorno per giorno nel suo studio. Tutte delle stesse dimensioni e con una gamma di motivi tematici tanto ridotta da sfiorare la costanza iconografica; tutte sulla medesima linea di ricerca che, lasciando progressivamente la figuralità giunge all’informale. Cordati non si cura più di titolarle né di ordinarle in alcun modo; rifiuta anzi, sistematicamente, ogni invito a farlo, come inutile e pretestuoso. Per lui stanno al pari di tutte le cose viventi e, dunque, non sopportano formule, etichette, classificazioni di sorta. Ciò che conta è solo l’atto che le pone in essere, quel quotidiano “tribolare” che dà senso e dignità alla vita, che è anzi la vita stessa. Sorretto da questa unica fede, Cordati dipinge fino all’ultimo, con l’alacrità della giovinezza. Ha quasi novant’anni ed è ancora attivo e vigilissimo quando, improvvisamente, viene colpito da un ictus cerebrale. Muore all’ospedale di Barga pochi giorni dopo il ricovero, il 26 dicembre 1979.
Dal catalogo della mostra
Bruno Cordati
Fondazione Internazionale “Santi Cirillo e Metodio” – Sofia, aprile / maggio 1990
Bruno Mantura : Pittura come rivelazione
Poche presenze in non molte mostre nazionali, o con pochi quadri, una partecipazione più fitta a esposizioni locali in diversi luoghi di Toscana, attività che si interrompe quasi del tutto a partire dall’immediato dopoguerra, sono elementi importanti che contribuiscono a delineare innanzitutto il carattere di Bruno Cordati.
Non intendo qui inoltrarmi in analisi di tipo psicologico: mi interessa invece il punto di vista razionale, ideologico, che spinge Cordati ad un quieto isolamento, isolamento segnato da un lavoro assiduo portato avanti anche in età avanzata.
È possibile dunque che l’artista ritenesse necessario per la sua arte, e probabilmente per qualsiasi individuo che volesse seriamente ed onestamente far arte, il vivere appartato, fuori dall’arena turbinosa del dibattito contemporaneo.
Mettersi da parte, per un artista, coincide spesso con una concezione aristocratica del mestiere, concepito appunto come una torre d’avorio. Non credo, né vi sono testimonianze a questo proposito, che Cordati volesse sottrarsi al tribunale delle mostre per una fierezza classista. È evidente invece che intendesse la pittura come un lavoro poetico che non può fare a meno della solitudine; che lo vedesse come un progressivo calarsi all’interno di sé stessi, avvolti da un profondo silenzio protettore. Sembra che Cordati si immerga sempre più in questa dimensione interiore che rassomiglia all’ampia distesa di un quieto lago. Segni inconfondibili, tutti i presenti sulla tela, paiono confortare questa impressione: le figure, e Cordati è essenzialmente pittore di figure, femminili soprattutto, sono accomodate nel campo pittorico in posizione di assoluta quiete, sedute con le mani unite, sdraiate ma sorrette dalle braccia, come un’antica immagine di fiume o di caduto. Si è scritto, a nostro parere del tutto convincentemente, che in quella sua maniera di dipingere vi fosse più di un riferimento all’arte di Ghiglia; ma le immagini di Cordati sono come accoccolate nella loro configurazione umana senza trasalimento, senza emozione: si piegano ad un ritmo prevalentemente orizzontale e discendente della sua tela, umilmente pronte a calarsi anch’esse nel lago vasto e silente della quiete interiore.
Cercar di tracciare un convincente profilo del cammino del pittore mediante una documentata cronologia delle sue opere è, come abbiamo visto, cosa impossibile. Quasi mai datate, le sue tele, si sottraggono ad una precisa collocazione nel tempo anche per il loro raro apparire in mostra. Ma, da indizi di qualche rilevanza, possiamo affermare, con certezza, che, sino alla fine degli anni trenta circa, la pittura cordatiana si è mantenuta piuttosto stretta al disegno, ad un impianto compositivo che, come nella Sera barghigiana, esposto nel 1931, è memore anche di quello dottamente manieristico, per quelle figure disposte sul primo piano a far da cornice ad un centro occupato da immagini collocate su altri piani; che quasi sempre il pittore ha lesinato strutturazioni prospettiche e articolate, vedi a questo proposito quale esempio estremo, Paesaggio toscano dove la linea delle case blocca qualsiasi profondità della rappresentazione. Sembra però che, appunto, alla fine di quel decennio o agli inizi degli anni quaranta, dopo il soggiorno in Bulgaria, il pittore tenda a dar più peso alla stesura cromatica del suo dipinto e a farla prevalere sul disegno inesorabilmente fermo. Segni come di animazione sono affidati ai colori che si accendono nei registri dei rossi e si disfano nell’oro bollente dei gialli. Per meglio dire, l’artista inizia a collocare l’oggetto disegnato in un magma colorato, nel cui spessore si dispongono appunto, in alto e in basso, a destra e a sinistra, figure umane o oggetti di natura morta.
Vibra il velo dei colori, ora ardenti, ora caliginosi che conferisce un’aura nuova e intensa al suo comporre. Cordati, come è noto, ha viaggiato attraverso l’Europa nella sua qualità di insegnante di disegno e di storia dell’arte in servizio presso istituzioni italiane all’estero. Tra il 1937 e il 1938 risiedette a Budapest. Non ci sembra azzardato avanzare un’ipotesi: più che l’Ecole de Paris (fu a Parigi dal 1938 al 1939) ha colpito la sua fantasia d’artista un pittore ungherese intensissimo, Làszlò Mednyànszky di cui ha potuto vedere tele in collezioni pubbliche e private di quel paese. Mednyànszky, che al tempo del soggiorno ungherese di Cordati, era morto da quasi vent’anni, pittore di paesaggi e di figure. Campagne e paesi, uomini giovani e vecchi sono immersi in una luce soffusa che ne allontana e sfoca la presenza. Cresciuto tra Vienna, Parigi e Monaco, Mednyànszky attinge a tinte che vanno da splendori corottiani a forti monocromi rembrandtiani, non esenti da profonde note simboliste, che tingono di straordinaria intensità la sua folla di esseri umani. Mednyànszky per il suo lavoro sulla figura dovette, prima, consonare perfettamente, dal punto di vista psicologico e umano, cordati pensava della vita e poi, così ci sembra, presentarsi ai suoi occhi come una vera e propria rivelazione pittorica. Le straordinarie effigi di diseredati, mendichi di città e campagne, di reietti afflitti da oscure perversioni ed infermità mentali, con i quali divise periodi della sua vita; quelle dei feriti e moribondi che ritrasse, come cronista di guerra della rivista Uj Idoc, sul fronte russo nel 1914 e, nel 1915, sul fronte serbo ed italiano per il quotidiano Budapesti Hirlup, non possono non essersi incise nell’animo quieto e sensibile di Cordati. Dopo quegli anni la pittura cordatiana compie una forte virata, sembra come risorgere dal suo ritmo di silenzio e orizzontalità, verso un moto ascensionale, o meglio una maniera nuova di scaglionare su tutta l’altezza della tela e, a volte, anche in profondità, gruppi di dolenti, volti di bimbi, madri che serrano i figli sul petto, lievitanti in questo fumo di colore che, senza troppo intaccarne la linea di contorno, le sfoca in un legante atmosferico altamente espressivo.
Gli anni dopo, forse già negli anni cinquanta, Cordati inizia una ricerca di tipo astratto e materico: la caligine colorata, ispessitasi, inizia a frantumarsi in pennellate dense e forti colpi di spatola, che smantellano il corpo dell’oggetto disegnato, lasciandone appena qualche traccia, tale da consentirne una tenue riconoscibilità. Nella casa di Barga le tele ammontichiate a decine sono testimoni del silenzioso e riservato lavoro condotto, sino alla fine della vita di Cordati, con una estrema separatezza dal mondo, per sé, per i pochi familiari ed amici.
Dal catalogo della mostra
Bruno Cordati
Fondazione Internazionale “Santi Cirillo e Metodio” – Sofia, aprile / maggio 1990
Marisa Volpi Orlandini : Per Bruno Cordati
Per Bruno Cordati, pittore quanto mai radicato alla sua terra: la Toscana, la Lucchesia e Barga, non si può dire che sia altrettanto chiaro il legame con la cultura pittorica tumultuosa degli anni toscani dei futuristi e del Novecento.
Artista anomalo, vissuto quasi novant’anni, ritiratosi nella città natale di Barga dopo la seconda guerra mondiale, trascorse nel Palazzo Bertacchi gli ultimi trent’anni della sua esistenza, dopo un occasionale girovagare quale professore di liceo da Parigi, a Budapest, Plovdiv. Quando si arriva a Barga, così bella nella sua asprezza, e si entra nel Palazzo, non si può non rimanere avvinti, guardando decine di quadri alle pareti, dalla singolarità della vocazione di Bruno Cordati, dall’ossessione mite ma irriducibile di quella mano col pennello che si immagina aver trascorso ore, giorni, anni a dipingere, a circondarsi della sua opera, “costruendo” le storie di una sua cattedrale.
Avvolto da un eskimo per difendersi dal freddo, con occhi che vedono sempre più l’interiore, rifiutando la bellezza delle valli verdi, del cielo azzurro, dei tetti intorno, il pittore sembra abbandonare ciò che pure aveva dato vita ad un’arte morbida e sensuale fino al 1946. Anche se alcuni dei quadri dal 1912, per più di trent’anni, furono alonati di parvenze “mistiche” – sfocature, luci turneriane o caravaggesche – nei segni e nei volumi che liberamente testimoniano un’origine vagamente novecentesca.
I dipinti più emozionanti per me sono proprio quelli di Barga, chiusi in più di 10 sale del palazzo, che, figurativi o astratti, hanno assorbito splendori impressionisti, volumi novecenteschi, tentazioni cézanniane, nel grigio di formelle scure, blu, gialllastre – quand’anche vi brillino dei rossi sono subito soffocati dall’asperità della materia – che dal 1960 alla morte narrano la stessa storia di spoglia e severa sofferenza umana.
Cesare Garboli scrive che Cordati “ha fatto della povertà una metafora”, definendolo acutamente un artista saturnino tendente alla malinconia. Paola Paccagnini in un saggio cita il lontano ma calzante parallelismo con Sironi, e ricorda l’uso in cordati di “un arco bassissimo di poche tinte: seppie, terre, ruggini, antraciti, e su tutte sovrano il grigio”.
Del Guercio, basandosi sulla testimonianza delle letture dell’artista, sottolinea che esse pongono l’accento sulla negatività, la discontinuità, il rifiuto e lo choc, e situa l’opera di Cordati in una definizione suggestiva e valida: “Novecento sconosciuto”.
Che cosa accade della Bellezza della Natura, dell’Amore per la Vita, di questo pittore e filosofo, sopravvissuto vigoroso a due guerre, subite con intensità di vittima come da altri milioni di uomini?
Con un piglio deciso Bruno Cordati fa della sua esperienza di sradicato pittore intellettuale, di stravagante antagonista del mondo, uno stile assolutamente suo, plastico, solenne, iterativo, che cancella Bellezza, Natura, Sensualità, e le trasforma per così dire nell’ombra e in profondità drammatiche che si è attirati a decifrare per ore fino al riemergere di un fascino stranito e inquietante.
Ci si domanda, leggendo le pagine della figlia Bruna – scrittrice di grande vigore – sulle letture serali dell’Ariosto, fatte dall’artista, insieme con molte altre antiche e moderne, che cosa colpisse l’animo del pittore di quell’ironia leggera del poeta dell’Orlando Furioso. Ne è venuto solo un quadro, un Astolfo che fugge a cavallo con in grembo la testa di Orrilo, mentre Orrilo decapitato lo segue con le mani alzate. Ancora un’immagine cupa e simbolica di violenza.
È qui, in questo “avvelenamento” omologante, che Giacomo Magrini coglie appassionatamente il fulcro degli ultimi venti anni di lavoro, quelli che più mi hanno affascinato: “la pittura di Cordati non si accontenta di ‘linee d’ombra’, ne vuole gorghi, masse, continenti. Ma quante coefore per placare un poco quell’erinni della luce!!”. La vita umana, le case, le acque, l’aria, gli oggetti di questo periodo sembrano assimilarsi ai sassi di cui è fatta la roccia della Garfagnana. La storia umana si raggruma in un’epica dell’anonimato della sofferenza, in una serie di Olii su tela o su masonite, ordinati in sequenze precise dallo stesso Artista, nel palazzo dove ha meditato, lavorato e vissuto.
È nell’isolamento che il pittore si infiamma di sé stesso e le belle velature dorate e argentate dei quadri precedenti si solidificano dando luogo a questi graffiti misteriosi, visioni che fanno emergere michelangiolesche “Pietà”, racconti di umiliati e offesi. Essi sembrano chiedere un pellegrinaggio, ma anche un lungo circostanziato colloquio con il pittore sull’originalissima forma di queste immagini.
Dal catalogo della mostra
Bruno Cordati – La pittura e i giorni
Palazzo Lanfranchi, Pisa 17 Settembre – 2 Ottobre 1988
Raffaele Monti: Memoria per Bruno Cordati
Mi è sempre parsa difficilissima impresa quella di disegnare una mostra di Bruno Cordati, e tanto più di cogliere in uno scritto la singolare realtà del suo percorso artistico.
La ragione di tale difficoltà mi sembra possa apparire evidente a chi conosce, o esattamente intuisce, i modi inconsueti del suo operare, così legati al ritmo di una interiorità quasi priva di cronaca evidente, oltre l’incrollabile coerenza di alcune scelte di vita. Inoltre la quasi totalità dell’unico nucleo di opere rimasteci di lui – quelle amorevolmente raccolte e parzialmente ordinate dalle figlie nella casa di Barga – comprende, nella sua grande maggioranza, quadri della maturità avanzata e della vecchiaia del pittore. Sono questi, anni in cui Cordati aveva definito un particolare rapporto con l’immagine; una sorta di saldatura tra il ritmo interiore della coscienza e il dipingere come esclusivo e continuo mezzo per indagarne le ragioni attraverso una vera e propria autoanalisi. In un tal procedimento l’immagine solo raramente si definisce come autonomia formale.
Interi decenni dell’attività del pittore sono dunque testimoniati solo sporadicamente, rendendo difficile una loro esatta definizione ed ancor più difficile il comprendere le ragioni per cui Cordati approderà in vecchiaia ad un modo di far pittura così poco gratificante e di ridotta volontà comunicativa. In una recente mostra fiorentina, su questi ultimi anni ha scritto acutamente Del Guercio affrontando con lucidità i problemi dell’<< informale >> cordatiano. Si trattava dunque, ora, di ritessere tutto un lungo cammino che prendeva avvio e si diramava entro gli anni fecondi della grande stagione del novecento italiano, mantenendo un atteggiamento non isolato ma di volontario distacco.
Era dunque un’impresa difficilissima, sia per il nucleo esiguo di opere rimasteci a testimoniare tale cammino, sia per l’anomalia relativa di tali opere nel panorama stesso della pittura contemporanea. Tranne una evidente radice << toscana > di cézannismo riformato (così acutamente individuata nel seguente saggio di Paola Paccagnini), era ben difficile scorgere elementi attivi che potessero essere sufficienti alla ricostruzione di una intera stagione creativa.
Sono dunque lieto e commosso nel vedere come la Paccagnini sia riuscita a leggere esattamente questa trama e, con raffrenata emozione, sia stata capace di ricostruire con indiscutibile evidenza il percorso dell’artista fino a chiarire le origini e le motivazioni di quel vero e proprio nodo emotivo ed insieme << mentale >> che rendeva disagevole la comprensione della mutazione << informale >> degli ultimi anni.
La figura di Cordati ora ci appare chiarificata nella sua singolare misura; un’attenzione vigile e complessa agli eventi della cultura genera in lui un fare pittorico << esclusivo >>, quasi per volontà di distinguere il proprio atto intellettuale dagli impulsi di una creatività intesa come sintesi tra emozione e coscienza. Quando negli ultimi anni questa dicotomia sarà saldata, ne nascerà una sorta di corto circuito, per cui l’artista alla singola immagine sostituirà la tensione lunghissima, quasi ininterrotta, di un unico ciclo in cui egli vuole definire il modo stesso di rappresentare questo complesso stato di coscienza.
Ne nasce dunque una stagione creativa non conclusa, difficilmente rappresentabile se non nella sua tangibile inquietante e spesso anche involuta evidenza.
Dal catalogo della mostra
Bruno Cordati – La pittura e i giorni
Palazzo Lanfranchi, Pisa 17 Settembre – 2 Ottobre 1988
Paola Paccagnini : Note su Bruno Cordati
A chi si proponga di rivisitare, sia pur brevemente e senza impegno di compiutezza monografica, la figura di Bruno Cordati, non può sfuggire nella scarsità delle notizie certe e degli eventi testimoniati la sua nascita barghigiana. Una nascita che già al primo sguardo oltrepassa il mero dato anagrafico – mai del tutto inerte, d’altra parte, nella vicenda di un uomo e di un artista in particolare e quasi sempre, invece, termine implicito di riferimento anche se negato e polemicamente contraddetto – per acquisire precise connotazioni storiche e sentimentali e imporsi come cifra caratterizzante, di immediata riconoscibilità.
Parlare di Barga, infatti, è quasi impossibile senza evocare, con quelle della sua tradizione più illustre – isola medicea, è stata detta, in terra lucchese -, le memorie recenti di coloro che in lei trovarono il proprio rifugio e il proprio conforto e che, non ospiti d’occasione, ma costanti esclusivi e persino gelosi abitatori, da lei trassero le ragioni più intime della propria esistenza umana e creativa: Pascoli e Magri. E la loro presenza, di cui Barga si è pervicacemente appropriata sì da prolungarne ancora l’eco nel risonante dedalo delle sue vie e delle sue piazze, che alimenta il mito della città cara alla poesia e all’arte e che inevitabilmente illumina di luce particolare anche la figura e l’opera del Cordati, il quale, va detto, barghigiano non è solo d’origine ma d’elezione, avendo qui trascorso quasi ininterrottamente gli ultimi trent’anni della sua vita. Il rischio, dunque, non è quello di eludere un dato così accattivante e capace di imporsi nella biografia relativamente povera del nostro pittore con tanta perentorietà, quanto di accordargli sin troppo credito e dedurne suggestive ma improbabili parentele spirituali e linguistiche.
In realtà è debito distinguere. Cordati certo, non è Pascoli, per il quale la scelta di un luogo che era e doveva essere insieme vicino e agli estremi confini della terra vale come riscatto e riconquista del perduto <<nido>> familiare, solo nucleo attivo di vita e di poesia: una scelta, dunque, di radice squisitamente decadente. Da lui forse lo allontana, più di tutto, ciò che una volta Alessandro Parronchi ebbe a scrivere per Magri: l’essere cioè figlio di un’età più <<dura e stentata>> /1, in cui il canto delle cose si è fatto dissonante e sempre più di rado la prosa del quotidiano cede alla poesia. Neppure tra le mura dell’antica città, dove il tempo sembra resistere nel giro naturale delle stagioni in una sorta di quieta e perfetta eternità, possono esserci più garanzie assolute di salvezza individuale: ed è allora anche per Cordati il tempo dei tentativi e degli errori, delle pause e delle riprese, il lungo seguito dei giorni spesi nella ricerca di un equilibrio che talvolta non si raggiunge e talvolta lascia dietro di sé, senza bruciare, tracce di dubbi, di cedimenti, di punti morti. A riprova, resterebbe d’altra parte il fatto che al Pascoli, all’uomo e al poeta di Castelvecchio, Cordati non dimostrò mai speciale propensione, ne senti il bisogno di dedicargli omaggi particolari, oltre, si intende, quelli dovuti e certamente sollecitati dai concittadini per colui che era stato il loro ospite più illustre. Non altrimenti ci pare debba interpretarsi lo stemma a fresco che ancor giovanissimo ideò su precisa richiesta del poeta per uno dei muri interni della casa di Castelvecchio e di cui, del resto, oggi è difficile giudicare a motivo di un cattivo restauro che ne ha irrimediabilmente compromesso la leggibilità. E con esso, i due più tardi ritratti pascoliani – di cui uno adespoto – che restano a Barga /2 e che, verità, non aggiungono molto, oltre una certa acutezza psicologica ben rilevabile nello sguardo e nella morbida piega delle mani, al ritratto tradizionale e più noto del poeta, in abiti professorali oppur sullo sfondo prativo del Colle di Caprona.
Mancato dunque l’incontro col Pascoli, resta da tentare quello con Magri; ma, lo si capisce subito, anch’esso senza minori margini di dubbio e di improbabilità. Altrettanto e forse più incondivisibile ancora è in effetti l’essere e il sentirsi barghigiano di Magri: che a Barga rifonda la propria nascita come nel solo luogo ove ancora alberghi la primitiva innocenza e sorgività del mondo. Un luogo che diventa per lui una vera e propria categoria dell’anima e che si identifica senza residui con la sua pittura. Lo si coglie al primo sguardo nella serie di quelle tempere che affidano al lindore di una tecnica povera e ai modi di un Trecento candido e visionario luoghi e momenti esclusivi di Barga: Barga con la mole bianca del suo Duomo, le sue vie in salita e i Bruschi intervalli delle sue piazze, Barga con i riti stagionali delle sue Semine e dei suoi Bucati, Barga con i suoi proverbi e le sue << moralità>>, la sua vita breve ma conclusa, come nella città del Buono e del Cattivo Governo, entro l’esatto confine delle sue mura.
No, tutto ciò non è di Cordati, non gli appartiene.
L’amore che egli porta alla città dove è nato e dove alla fine sceglierà di vivere in solitario dialogo con i colori e con le tele ha un altro accento e un’altra natura; più segreto irriguardoso, non si lascia scoprire facilmente né si riflette in un repertorio iconografico costante. Come luogo fisico, anzi Barga è quasi del tutto assente dalla pittura di Cordati: un balcone fiorito, qualche breve panoramica di tetti, un tratto bianco di muro davanti al quale s’assiepa la vegetazione selvatica è tutto quanto di lei a malapena possiamo riconoscere; e poco più familiare all’occhio, quell’angolo d’orto che visto dallo studio potrebbe però essere stato dipinto dovunque. Neppure un cenno alla fisionomia tipica del luogo e a ciò che era stato motivo di tanto fascino per Magri, ispirando le sue preziose sensibilissimi e ricostruzioni topografiche.
Nondimeno Magri è presente alla coscienza del nostro e non come termine secondario di riferimento. A lui infatti ha dedicato un articolo che va ben oltre l’omaggio dovuto per ragioni di solidarietà al pittore amico e concittadino, se nasce nell’ambito di una pratica assolutamente eccezionale per Cordati e vincendo la resistenza a un mezzo di espressione che egli non considera mai come suo. Scritto nel ‘51, nel cuore del ritiro barghigiano, esso scopre, dietro la volontà di risarcire l’artista per troppo tempo ignorato da una critica distratta e negligente, i principi che informano la poetica stessa del suo autore e connessi un preciso tentativo di autodefinizione. La patria del <<Cantastorie>>, riconfermata come dato primo e irrinunciabile della biografia di Magri (<<si può dire, senza esitazione, che il Magri si è formato a Barga e a Barga è avvenuto il suo svolgimento spirituale, anche se per brevi periodi egli abbia vissuto altrove>> /3 ), è assunta è fatta propria da Cordati che la reinterpreta totalmente nei termini della sua personale filosofia della vita e dell’arte. Abbandonata l’identità reale, Barga si configura come il centro generatore di tale filosofia, una sorta di osservatorio privilegiato da cui l’occhio spazia con agio sul mondo della cultura contemporanea guadagnando una nuova capacità di vedere. È, in breve, il momento del confronto con se stesso e con l’altro da sé, atto a suscitare tutta una serie di considerazioni, rilievi e appunti che, ben oltre la momentanea estrinsecazione verbale, sono destinati a valere come riferimento costante per tutto il corso operativo del Cordati e segnatamente per quello degli ultimi anni, gli anni appunto di Barga. Merita ricordarne alcuni, dei più assertivi e conclusivi: come la diffidenza e dichiarata estraneità ad ogni sorta di volontarismo in arte, sia esso rappresentato da programmi etichette o battaglie polemiche, che <<l’arte non si racchiude in una formula, come non si imprigiona un raggio di sole>> /4; il bisogno del raccoglimento del silenzio invocato per chi opera ma non meno per chi è chiamato a giudicare dell’opera altrui, lontano dalla supponenza della critica ufficiale e dai vizi di <<un gusto sensibile soltanto a tutto ciò che sa di nuovo, astruso, di snobistico>> /5; il rispetto dovuto a quel mondo primevo che ogni artista si porta dentro di sé e che riscopre nella sua genuina sostanza poetica ogni volta che rinunciando a <<virtuosismi o compiacenze >> /6 sappia essere soltanto se stesso; e infine, umile e incondizionata, la ferde nell’arte: che è studio, perizia artigianale, mestiere (<<non ci si dovrebbe lamentare di possedere il mestiere, ma semmai di non possederlo abbastanza>> /7), conquista lenta e laboriosa di un risultato che ha in sé il proprio merito e la propria ricompensa perché nasce dall’adempimento di un dovere assegnato dalla natura, ma che, proprio per questo, conserva sempre un certo margine di imprevedibilità, di mistero:<<Ogni artista dà fiori suoi, come ogni pianta una fioritura speciale. Ed i fiori sono tutti belli e profumati, se sono veri>> /8. Espressi nello stile caratteristico dell’aforisma, abbiamo qui dunque i termini essenziali di un discorso sulle ragioni e il senso del proprio essere pittore cui Cordati non accetterà di dare più compiuta sistemazione teorica /9, certo ritenendo, e a ragione, di doverlo fare piuttosto con le tele e i colori. E non è chi non veda in questo succedersi di metafore naturali – alle quali viene spontanea aggiungerne almeno un’altra, amatissima dal pittore e che da lui s’udrà ripetere spesso negli anni ormai tardi della vecchiaia :<< esternato platano[…]; star fermo, allargar[sì] sempre più nelle radici>> /10 – la traccia di un dibattito interno e di quello che resta forse il nodo problematico maggiore del pensiero come dell’opera sua: il tentato raccordo tra le ragioni della natura – <<il fiore>> – e le ragioni dell’arte – <<il mestiere>>. Dibattito certo non originale né proprio soltanto di Cordati, ché in fondo si risolve nell’eterno confronto fra l’urgenza dell’emozione primaria, istintiva e il bisogno di un ordine razionale che ne assicuri l’espressione in forme storicamente comprensibili, ma da lui vissuto sempre con particolare intensità e reso attuale di personali motivi, sì da risultare totalmente coinvolgente. E capace, per noi, di spiegare con le opere felici anche soprattutto i tentativi meno riusciti, le diverse e talvolta opposte predilezioni formali e, insomma, il valore e il senso di quel percorso fatto di continue tensioni e superamenti che è per Cordati l’arte: travaglio e – sono ancora parole sue – quotidiana <<tribolazione>> /11, ma anche miracolo perennemente nuovo e rinnovato.
Del resto, lasciando la pagina scritta, è ormai tempo di portare lo sguardo alle opere che nella loro realtà effettuale sono poi le sole a possedere intera la consegna del suo pensiero. E nel campo meglio provveduto di queste, ve n’è una che guadagna subito la nostra attenzione con l’evidenza di un manifesto e della quale vorremmo perciò approfittare per tentare, il viatico dell’articolo su Magri, un esame un po’ più ravvicinato: quella che recentemente è stata battezzata In soggettiva (tav. 7). Un titolo, ho detto subito, che le si attaglia come meglio non si potrebbe e che lo stesso Cordati non avrebbe avuto difficoltà ad accogliere, qualora si fosse dato la cura di cercarlo. Del resto, l’opera non ha certo bisogno del titolo per qualificarsi ed è anzi tanto esplicita nel pensiero che la informa da risultare un <<unicum >> nell’iter creativo del pittore, ormai sappiamo quanto renitente ai manifesti e alle dichiarazioni di programma. Con eguale forza assertiva, vi è proposto lo stesso pensiero che emerge dall’articolo su Magri: una meditazione sul lato soggettivo del creare. Espresso, questa volta,<<per penicilla>> anziché <<per verba>> e facendo ricorso ad un’invenzione figurale che nell’esibita originalità mostra attinenze precise – ma del tutto insospettate e si sarebbe detto incognite al Cordati antiavanguardistico – aeropittura del secondo Futurismo marinettiano.
Dalla penombra color indaco di una cella – che è poi lo studio barghigiano del pittore – colta secondo una spericolata prospettiva in appiombo, emergono, sole, le mani dell’artista intente a fermare entro i chiari margini di un supporto le prime tracce di una scena che – lo intravediamo appena ma senza possibilità di equivoco – è la stessa del quadro che stiamo guardando: In soggettiva. Reso del tutto invisibile a noi dalla posizione di spalle e dal taglio avanzato del quadro, il volto di lui ci sogguarda in controcampo, debolmente profilato sullo specchio nero di un vetro. In alto, uno scorcio di paesaggio abitato apre l’unico spazio luminoso dell’immagine che una grata metallica scandisce a rimarcare il confine di separazione tra l’io e il mondo, che è pena e talvolta tormento per l’artista, ma anche condizione imprescindibile di autonomia e di indipendenza.
L’opera, sappiamo, ebbe l’omaggio di un riconoscimento autorevole, quello di Marinetti: il che, se da un lato contribuisce a darle una collocazione cronologica – nei primi anni Venti, gli anni, appunto, del rilancio futurista e dei programmi plastico-dinamici di Marinetti e compagni – ci dice pure qualcosa sugli incontri e le frequentazioni del giovane Cordati, la cui posizione, almeno a questa data, non può dirsi quella di un isolato né di un assente dal dibattito culturale contemporaneo.
Per altro verso e con ragioni diverse da quelle di Marinetti al quale, com’è naturale, dovette piacere soprattutto per la prospettiva dinamica e avvolgente e per quella accenno in costruzione in abisso che si è poc’anzi rilevato, l’opera avrebbe potuto contare con pari legittimità su altri apprezzamenti. Intendiamo l’apprezzamento di quanti, all’invenzione iconografica anteponendo la condotta più propriamente pittorica, si sarebbero fermati davanti a quel brano di pura pittura ed intenso risalto visivo che è il paesaggio, serrato con la fermezza di una tarsia cromatica, nel vano della finestra. Fra tutti, in particolare, un Oscar Ghiglia o un Alfredo Müller; e non già, si intende, il Müller delle <<piccole pennellate corpose, divise e sfarfallanti>> /12 che ancor prima dello scadere del secolo aveva importato in Italia << il nuovo verbo dell’impressionismo illuminista Monettiano>> /13, suscitando una gara di furiosi aggiornamenti tra i suoi colleghi toscani e livornesi, ma il Müller degli anni di guerra e forse anche dopo, l’autore del Ponte Vecchio a Firenze, ormai maturo è capace di dare<< un’interpretazione intelligente, spesso anzi autentica e vigorosa, lo stile di Cézanne >> /14.
Due artisti che con accentuazioni diverse e secondo il dettato dei rispettivi temperamenti – irruento ed estroverso il Müller, meditativo e costantemente portato alla autoanalisi il Ghiglia – rappresentano le punte avanzate di quel fenomeno altrimenti vario e complesso che è, appunto, il cézannismo in Italia. Sono queste infatti, e a rinnovarne la memoria è ancora C. L. Ragghianti che al problema dedicò anni orsono uno dei suoi saggi più ampi e circostanziati, gli anni della massima diffusione del linguaggio di Cézanne: contrassegnata da alcune tappe fondamentali e in certo modo risolutive che sono l’azione promotrice dello Sforni e del suo illuminato collezionismo, la Secessione Romana del ‘14 (a cui Cézanne è presente con ben 13 opere), la consacrazione ufficiale è definitiva di Valori Plastici.
Nessuna sorpresa, dunque, che in mezzo ai ferventi adepti del Maestro di Aix possa trovarsi anche Cordati; e semmai un cenno doveroso di riconoscimento al pittore che <<tra tante anteriori e ulteriori approssimazioni>> /15 mostra sufficiente giustezza d’occhio da scegliere come riferimento proprio l’opera di quei suoi due conterranei più vicina a Cézanne e più capace di rendergli un omaggio meditato e autenticamente comprensivo. Ciò che per l’appunto, riesce anche al nostro pittore, la cui presenza in quest’ambito della cultura figurativa è, se non precocissima, certo ben motivata e conseguente ad un aggiornamento tutt’altro che superficiale. Capace, inoltre, di una discreta tenuta nel tempo, se ancora nel ‘32 ne darà testimonianza <<L’Eroica > di Cozzani, dedicando a Cordati un fascicolo che raccoglie, insieme a numerosi saggi di fattura ormai dichiaratamente novecentista – e come tali intesi a rendere la fisionomia all’epoca ritenuta di lui più tipica e rappresentativa – altri dove s’afferma ancora con evidenza quella <<pennellata lamellare in funzione di abrupta incalzata volumetria >> /16 che era stata la sigla inconfondibile di Cézanne e, per lui, di Müller e di Ghiglia.
Contando su tale riferimento cronologico – unico certo in tanta povertà di date – e assumendolo come <<terminus post quem >>, possiamo del resto affidare la parola direttamente ad alcune opere superstiti che ben vedremmo scalarsi nel corso del terzo decennio. A principiare da quella già esaminata è che è stata d’avvio al nostro discorso, In soggettiva e, più indietro ancora, da una tavoletta di paesaggio (tav. 6), singolarissima nella sua aria post macchiaiola e capace di riportarci, per il serrato impianto modulare – ché di così assertivi non ne vedremo più riproposti dal Cordati – e per la gamma cromatica tutta giocata sui toni alti dei bianchi e degli azzurri e dei rosa ciclamino, allo smaltato clima visivo del miglior Ghiglia. Procedendo poi con uno scorcio di case al sole (tav. 8) e con il Ritratto di Clara (tav. 10), anch’essi vicinissimi al Ghiglia e risolti sul suo esempio in un fitto tessuto di scaglie cromatiche: saldo e bloccato in nette partiture di ombre di luce, nel primo; più mosso e vibrante nel secondo, dove sin la scelta del soggetto, pure improntata ad un gusto già chiaramente novecentista, non può celare il ricordo di un quadro come Meditazione del 1918. Due opere, almeno, che meritano di essere segnalate in quanto, avanzando di qualità sulle altre, ci porgono la misura migliore del cézannismo toscano di Cordati.
Riguardo al quale, tuttavia, rischieremmo di compromettere la verità storica parlando dell’esperienza prioritaria o anche solo più qualificante del pittore. Vero è che, per quanto meditata e capace, come si è visto, di esiti non secondari, tale esperienza conserva nell’economia di un’attività singolarmente vasta e protratta nel tempo come la sua il carattere di una parentesi: compresa tra un prima e un poi di altro segno e risultanti da altra condizione espressiva.
Più ardua, va detto, definire il <<prima>>, lontano negli anni e sprovvisto com’è quasi del tutto per noi di appigli cronologici e di ricordi comunicati. Una sorta di zona incognita che si estende per circa un decennio – dal ‘10 al ‘20 – e dalla quale non affiorano che alcune e sparse reliquie, come il Ritratto di Alfredo Stefani (tav. 2), felicemente risolto in quella lama di luce che seccando l’oscurità trasforma il personaggio in un’apparizione fantasmatica e come la deliziosa Fantasia (tav. 1), tutta affidata ai toni morbidi del pastello che sgrana dolcemente in una diffusa luminosità dorata. Due testi che almeno a giudicare dalla tecnica già scaltrita non dovrebbero essere i primi tentativi del pittore, come certamente non furono gli ultimi nell’ambito di un tirocinio che appare diviso tra Carrière, Previati ed altre simpatie simboliste: tutto sommato abbastanza convenzionale per un giovane della generazione di Cordati.
Più indicativo e rivelatore di scelte originali, anche se non meglio testimoniato, il secondo tempo della sua formazione che cadendo negli anni di guerra segna la fine di un decennio. È la guerra, per l’appunto, a fornire col soggetto la collocazione esatta di un’opera come Soldati al fronte (tav. 5); la prima di cui si abbia notizia certa e che per affinità stilistiche ben vedremmo a legarsi alle altre due: una breve impressione di figure a passeggio dal velocissimo impulso motorio (tav. 4) e un Paesaggio montano tiepido di lumi rosati (tav. 3). In tutte, un senso d’agio e di libertà formale, una freschezza compositiva, una trasparenza di colori e di luci madreperlate assolutamente inediti e che non sapremo ambientare altrimenti che un clima capesarino. Per chi, in effetti, era spinto come Cordati lontano dalla Toscana, per quattro anni sul Carso, l’incontro con Venezia e con i pittori della <<scuola di Burano>> – con Moggioli soprattutto, il cui Sole d’inverno del 1908 è per il paesaggio poc’anzi citato memoria recente e tanto esatta da far trasalire – appare più che probabile, certo. E piacerebbe sapere – ma in fondo non è di molta importanza – se fu diretto e se profittò di una conoscenza personale con quei pittori che la guerra chiamava combattere negli stessi luoghi o se invece avvenne solo per il tramite delle opere di cui si serbava viva la fama nella laguna: come per l’appunto, Sole d’inverno e come altre di Moggioli, sottilmente volte a temperare le accensioni cromatiche dell’Impressionismo di più intime luci invernali e serotine. Resta il significato dell’esperienza che non è di poco momento nel panorama culturale di questi anni e che pensiamo non sia estranea neppure ai futuri sviluppi dell’arte di Cordati.
Come da tali operette lievitanti di valori atmosferici e di grazia tutta veneta si passi nel volgere di pochi anni alla serrata costruzione prospettica di un quadro come In soggettiva e dal fare leggero e mosso in veloci abbreviature del pennello alla tarsia cromatica lucida e compatta come uno smalto, certo è difficile dire. Nella riscontrata mancanza di opere capaci di offrirci un giunto significativo possiamo avanzare solo delle ipotesi: il ritorno in Toscana, naturalmente, alla fine della guerra, con ciò che doveva significare per Cordati di riappropriazione delle sue radici linguistiche e richiamo ad una tradizione fatta di equilibrio, ordine e rigore costruttivo; la suggestione ormai ineludibile che il cézannismo, all’apice della sua parabola e con l’acquisita autorità di un linguaggio nazionale, poteva esercitare su di lui, come del resto andava esercitando anche sui sodali buranelli e sullo stesso Moggioli ormai giunto a concludere, altrove, la sua vicenda umana e creativa. Ma, per una scelta così repentina, meglio ci sembra forse ricorrere a una terza ipotesi, più semplice e comprensiva di tutte: quella che fa appello alla <<doppia anima>> di Cordati divisa tra natura e cultura, sensibilità e ragione, quale in precedenza si è tentato di definire. Una disposizione mentale che trova immediato riscontro nell’atto operativo, orientando ora in un senso ora nell’altro – e pur con tempi e modulazioni diverse, volta per volta esperibili nelle singole opere – l’autodidattismo del pittore.
Certo è che Cézanne, ovvero il partito della ragione, non sarà alla fine quello vincente.
Lo si può accertare già sullo scorcio del terzo decennio, allorché si palesano, inequivocabili, i segni di una rinnovata mutazione linguistica. Il colore perde gradatamente la sua limpidezza e si sfiocca in impasti densi e granulosi, sensibili alla penetrazione della luce e dell’atmosfera; le forme allentano il primitivo squadro e tendono a disporsi con più libertà nello spazio che le contiene; e, per essi, muta completamente il clima delle immagini, dove un più congeniale <<esprit de finesse >> torna a prevalere su quell’<<esprit di géométrie>> che le aveva governate per quasi un decennio.
È sotto questo segno che Cordati riannoda il filo interrotto con la prima parte della sua attività e affida le nuove maggiori acquisizioni del suo linguaggio. Quella del Novecento, in primo luogo, che vediamo coincidere con il momento del suo massimo riconoscimento pubblico, tra la partecipazione alla Biennale veneziana del ‘28 /17 e il quaderno dedicatorio de << l’Eroica >> del ‘32. Un’esperienza largamente documentata, per l’appunto, sulle pagine della rivista di Cozzani ma che meglio e più affidabilmente ci è dato d’apprezzare in due operette <<minori>>, rimaste nello studio dell’artista a conferma di una destinazione certo più privata e familiare: un Ritratto di signora (tav. 12) dal tessuto morbido di bruni e di grigi, sottilmente intonati a quel clima di gentile mondanità che ne è la nota dominante, rincalzo della quale breve s’appunta, tra la <<cloche>> del cappello e lo scollo dell’abito, la perla bianca di un orecchino. E, di ancor più netta sigla novecentista, una Giovinetta seduta (tav. 11), poco più di uno studio ma estremamente felice nella sintesi formale e cromatica risolta a favore di una luminosità soffice e diffusa che molto deve all’esperienza veneta di Cordati e che molto darà ancora di sé, sino a diventare una costante espressiva, negli anni a venire. Non a caso la scelta della tecnica cade ora sul pastello, più duttile capace di conciliare le ragioni del disegno con quelle del colore, aprendo lo spazio alla libera circolazione della luce e dell’aria. Come non è un caso che in questi stessi anni e forse proprio intorno a quest’opera, si desti l’interesse di Cordati per la grafica. Un interesse di cui il primo ragguaglio ci viene ancora da <<l’Eroica >> con il disegno di un volto infantile riprodotto ad apertura d’articolo (Tristezza), ma che è destinato a protrarsi ben oltre nel tempo e ad alimentare un folto nucleo di carboncini e sanguigne databili sino agli anni Cinquanta: studi di donne, per la gran parte, fermate dal segno ora tenero e friabile ora più forte e rimarcato della matita in pose d’abbandono e di pensoso raccoglimento, che un filo sottile ma riconoscibilissimo collega tutte alla Giovinetta seduta di quasi un ventennio prima.
Si approfondisce intanto anche negli olii la traccia di nuovi apporti e di nuovi riferimenti linguistici. Dopo Cézanne e dopo cézanniani di Toscana, il dialogo di di Cordati si apre ora con altri due toscani o, meglio un toscano e un piemontese toscanizzato: Soffici e Carena. Artisti fra loro distanziatissimi quanto a percorsi e ricerche formali ma apparentati, ci pare, da certe singolari affinità di temperamento – in bilico tra lo scatto dell’emozione e il superiore dominio intellettuale – che sappiamo proprie anche a Cordati e che biograficamente troveranno sbocco in scelte finali di ritiro e di isolamento molto simili alla sua. Ma dove la loro influenza si fa più manifesta, è nella qualità della materia pittorica ed è qui, soprattutto, che importa riconoscerla. Un vero prestito linguistico, se guardiamo alla particolare timbratura del colore in certi quadri, dove il rosa sfuma nel violetto passando per l’azzurro con una costanza di accordi che rimanda immediatamente a Carena e alle sue dominanti cromatiche. E se, d’altro verso, ricerchiamo l’origine di quel tessuto vellutato e spugnoso col quale Cordati riveste la superficie dei suoi quadri e che difficilmente potrebbe concepirsi lontano dall’esempio di Soffici. E intendiamo: non il primo Soffici,<<retour de Paris>> con le novità dell’avanguardia cézanniana e post, né il Soffici futurista o quello dei <<trofeini>>, del quale il nostro pittore avrebbe peraltro ben potuto condividere le simpatie per certe forme d’arte popolare e incoltivata che tanta parte sembra abbiano avute nella sua educazione artistica sin dai primissimi anni, quando – racconterà – disertava le aule scolastiche per accodarsi a un pittore di insegne e girare con lui la campagna di Barga imparando il mestiere. Ma il Soffici del <<richiamo all’ordine>>, ormai ricondotto nei beneamati confini di Poggio a Caiano e alla pratica di una pittura <<riformata>> che allevia i rigori toscani in morbidi vapori d’ovatta. Un’influenza, questa, di cui Cordati continuerà a risentire molto avanti nel tempo, se ancora, come crediamo, sono degli anni Cinquanta due paesaggi fluviali della Corsonna (tavv. 23 e 24), tanto sofficiani nel lievitato trattamento cromatico da proporsi come veri e propri atti d’omaggio.
Senza anticipare troppo le date, tuttavia, e senza indugiare sui termini pure riguardevoli di Carena e di Soffici – per i quali, del resto, non è necessario supporre un incontro e un approccio diretto, bastando il tramite delle loro opere, tra le più note e divulgate nel tempo – conviene ricordare come quelli tra il ‘30 e il ‘40 siano anche, per Cordati, gli anni dei viaggi e dei soggiorni all’estero. Dapprima a Budapest, nel 37 – 38, poi a Parigi e infine a Plovdiv, Bulgaria. Viaggi di lavoro, essendo comandato a prestare servizio nei licei italiani di quelle città come docente di storia dell’arte e disegno, ma che diventano occasioni per tentare nuove conoscenze e nuove esperienze e respirare, lontano da Barga e dalla Toscana, aria di un altro cielo.
A Parigi, a dire il vero, non dipinge quasi, riservando il tempo libero dalla scuola alla seguitata pratica di musei e gallerie che accrescono la sua cultura figurativa di un repertorio di immagini ampio e vario, cui non mancherà di attingere negli anni seguenti. Ma a Parigi trascorre poco più di un anno. Dipinge invece, e molto intensamente, in Bulgaria, dove rimane per più di quattro anni, dal ‘39 al ‘43. E quello bulgaro resterà sempre nella memoria sua e dei familiari come uno dei periodi più felici e più compiutamente vissuti, tanto sotto il profilo umano che creativo.
Sia stato il trovarsi a dipingere sotto aperture più ampie di cielo o in mezzo a una maggiore cordialità e schiettezza di rapporti umani, resta il fatto che le opere di questo periodo sembrano investite tutte da una nuova corrente vitale. Non occorre possedere spiccata acutezza d’occhio per coglierne i segni rivelatori: negli impasti, che si fanno sempre più ricchi e sugosi e soprattutto nella luce; una luce di qualità particolare, che galvanizza il colore accendendo di lampi magnetici per la sua tavolozza così spesso tendente al monocromo o comunque affidata a scale brevi e contenute di ocre, rosa pallidi, di terre bistrate, grigioverdi, di bruni. A riprova, del resto, basta avvicinare direttamente alcune opere nella loro concreta singolarità. Fra le tante, almeno quel paesaggio urbano (tav. 14) che il sole di mezzogiorno fa evaporare in un brulichio di bianchi, di gialli e di verdi acidi, con la singolare invenzione cromatica di quegli alberelli trasformati in altrettanti globi elettrici. E, soprattutto, alcuni ritratti – ché Cordati rimane anche ora pittore di figure più che di paesaggi -: come quello della ragazza dagli occhi a mandorla (tav. 15) che si rileva nel bel verde sonoro della veste contro il riverbero luminosissimo di un vetro; e come l’altro della giovinetta dai tratti fini e delicati (tav. 16), tra i più belli, forse, che il Cordati abbia mai dipinto, per la tesa concentrazione del colore e l’acuta misura psicologica puntualmente definita dal risalto del bianco colletto merlettato.
Ma tale periodo di felicità ed effusione cromatica ha presto termine: è ormai il tempo della guerra e con la guerra del ritorno in Toscana.
Il dramma che si rinnova brutalmente non lo risparmia e malgrado questa volta lo tenga a Barga anziché condurlo in prima linea sul fronte, lascia su di lui tracce profonde, sì da segnare quasi il discrimine tra i due versanti della sua vita, di uomo e di artista. Ormai, come annota la figlia Bruna, <<non era più giovane e non era più responsabile solo di sé>> /18.
La prima conseguenza, per l’artista, non tarda a manifestarsi, ed è la perdita, progressiva e irriducibile, del colore. Sopravvivono infatti del periodo bellico alcune opere – poche, essendo stata la più parte di esse distrutta successivamente dall’autore, secondo una pratica divenuta corrente negli ultimi anni – che lasciano affiorare una materia povera e scabra, dai toni lividi e opachi, totalmente estranea, si direbbe, a quella trattata con tanta prodigalità solo pochi anni addietro. E bisognerà attendere la fine della guerra e forse addirittura la fine del decennio perché il colore sulla tela riprenda tono e corpo e torni in qualche modo avvalersi dei suoi diritti; ma anche allora non sarà più il colore alto e spiegato del periodo bulgaro, e qualcosa come un velo di caligine estenderà su di esso una sottile patina brunita, solo risparmiando, a volte, certi bianchi intensissimi: come nel Vaso di petunie (tav. 21) o nella splendida Natura morta con drappo bianco (tav. 27), dove, a rialzare l’accordo prezioso dei rosa antichi e delle ocre e dei verdi marci, è proprio il tono luminoso di quel drappo, bianco come di latte rappreso.
Quanto all’uomo, la guerra ha, come conseguenza più rilevante, il progressivo abbandono della scena pubblica e il ritiro, volontario e definitivo, nella clausura di Barga . << La solitudine di Barga>> infatti ora << gli è necessaria; e gli è necessaria l’immobilità >> – sono ancora parole della figlia Bruna /19 – non solo per << fortificarsi >> contro l’urto della guerra e << fissare il suo punto di vista sul moto violento che lo circondava >> /20, ma soprattutto come condizione per << fermarsi, concentrarsi e svilupparsi in profondità >> /21, riscoprire quelle radici che sono all’origine del suo essere pittore. Una condizione accettata senza riserve ed alla quale saprà mantenersi fedele fino all’ultimo giorno, assentandosi del tutto dai dibattiti e dalle competizioni ufficiali – cui del resto, sappiamo, aveva sempre aderito moderatamente e con molte cautele – e respingendo ogni men che discreta interferenza nell’ordine della sua vita e del suo quotidiano << tribolare >>. Per tutti, e persino per gli amici e per le figlie, una sola risposta: non più mostre, non più prolungate assenze dal suo paese e dalla sua casa, non più << tensioni inutili >> /22.
Ecco allora compiersi l’evento fatale: allentati i rapporti con il mondo esterno, si intensificano straordinariamente quelli con l’interno e acquistano rilievo e autorità le voci prima inavvertite; voci impresse nella memoria dalle numerose letture e da un’ormai lunga esperienza di cose e di uomini, ma più spesso voci di presenze comuni, con le quali divide la vita tutti i giorni. Come quelle dei gufi che fanno il nido in soffitta, animando il buio delle loro partenze dei loro ritorno, o quelle provenienti dalla via e rimandate dalla lunga fuga di stanze, dove la notte i passi dei viandanti si fanno tanto distinti da poterli contare. E con le voci, i colori delle pietre di Barga, bruno – azzurrate di muschi e di licheni. Un contrarsi insomma, dell’udito e della vista al massimo grado, per il quale viene spontaneo il ricorso al pascoliano << impiccioli[re] per poter vedere, ingrandi[re] per poter ammirare>> /23, e certo la presenza tutelare del poeta di Castelvecchio qui si fa più sensibile che altrove; senonché tale atteggiamento ha poi, come esito linguistico prevalente, qualcosa di assolutamente diverso, ovvero l’approdo all’informale.
Si avvia infatti a questo punto la ricerca di Cordati in quella che, con riguardo anche ad esperienze tangenziali, è stata definita << l’area dell’informale ampliato >> /24. Ad essa è andato l’omaggio di Antonio Del Guercio che le ha dedicato di recente attenzione privilegiata, per dovevi tornare ora diffusamente; sicché lasciamo volentieri a lui la parola riservandoci solo alcune considerazioni particolari.
Prima delle quali, il valore e il senso da dare ad una scelta espressiva che bene o male impegna il pittore per oltre trent’anni, sopravanzando in durata ogni altra della sua pur non breve esistenza e recando a consegna l’immagine definitiva di lui. Valore e senso non reperibili di certo nella volontà di aggiornamento di chi, mai preso più che tanto dalle ricerche di punta, col ritorno a Barga intende ormai dipingere unicamente per sé e per il proprio conforto; e neanche solo nella tendenza, pur presente ed accentuatasi vieppiù col tempo, a semplificare e ridurre alla massima concentrazione il dettato formale, che culminerà, per l’appunto, nelle opere di questo momento; ma destinati a chiarirsi ove, preventivamente, si colga la particolare declinazione dell’informale cordatiano: assunto secondo i modi di una psicologia della forma che meglio sembra a conciliare le ragioni della sensibilità e quelle dell’intelletto, offrendo l’ultima e più adeguata risposta ad un problema antico. Invece di una scelta abrupta ed improvvisa, irrelativa o sovvertitrice del passato, come saremmo altrimenti portati a considerarla, essa ci appare dunque preparata da tutto un lavoro anteriore e capace di soddisfare esigenze che ormai sappiamo connaturate all’artista sì da costituire quasi il nucleo generativo della sua ispirazione. A sostegno di ciò, non mancano del resto le testimonianze: che ci vengono dalle letture, prese a frequentare ora regolarmente e con sempre maggiore intensità, ove, accanto ai classici, poeti e scrittori dell’Otto-Novecento come Flaubert, Joyce, Proust e tanti altri – avvicinati sempre con il consueto metodo lenticolare, uso a ritornare infinite volte sulla stessa pagina isolandone le strutture portanti, gli snodi sintattici, le regole di composizione e di stile; lo stesso seguito nell’ascolto della musica e che vediamo collimare singolarmente con quanto accade pure sulla tela – c’è posto per un solo critico d’arte, il Gombrich. Mentre altre testimonianze – le più decisive – ci vengono dalla ricognizione nel processo operativo del pittore che in senso nuovo ovvero, per l’appunto, gombrichiano, recupera la pratica leonardesca della << macchia >>, assumendola normativamente come principio di individuazione e d’ordine del quadro.
Così inteso, l’informale apre a Cordati un campo sterminato di possibilità e di sempre nuovi sondaggi in quel fenomeno misterioso che è la genesi della forma. E ben comprendiamo come le opere di tal periodo si moltiplichino sino ad agguagliare il ritmo di un diario giornaliero, quasi orario: dove, come in ogni diario, non sono assenti le pause, i segni di stanchezza, i tentativi rientrati od incompiuti, le zone morte; ma dove questi depositi o scorie che le opere talora drammaticamente evidenziano, invece di una remora sono piuttosto un incentivo per il pittore a proseguire la sua ricerca, qualche volta azzerando, più spesso correggendo il risultato con varianti appena percettibili, tentando e ritentando sempre, in ogni caso, di attingere l’equilibrio giusto, per il quale finalmente l’opera << consista >> in tutte le sue parti.
Ne riesce un universo di immagini in cui, va detto subito, è quanto mai difficile districarsi.
Difficile per l’assenza di date od altri riferimenti cronologici che anche l’opera di questo periodo, come quella precedente, denuncia; in ciò consentendo, certo, con un’idea dell’arte – quale ben conosciamo – polemicamente avversa ad ogni sorta di formula od etichetta che possa sovrapporsi ed arrestare il flusso naturalmente continuo dell’essere. Ma, ben oltre questo dato per così dire costituzionale ed intrinseco a tutta l’attività di Cordati /25, difficile anche per le caratteristiche della prassi pittorica testè descritta ed ampiamente testimoniata da chi può ormai focalizzare su di essa un ricordo nitido e preciso. Il ricordo di tele volta a volta elise e sbiancate, e di un procedere in tempi lunghi, con abbandoni e ritorni e replicati interventi sull’opera, nel tentativo rinnovato anche a distanza di anni di modificare, sovvertire e persino distruggere radicalmente l’immagine pr imitiva. Sicché vano sarebbe intraprendere un tentativo di periodizzazione che non si approssimativo e poco davvero abbiamo da aggiungere a quello compiuto con cura attenta e solerte dalle figlie.
Con tutto ciò, resta da considerare ancora un terzo elemento; terzo ma non ultimo in ordine al problema di cui si diceva: l’estrema – e all’apparenza sconcertante – uniformità del dettato pittorico che allinea in quest’ultimo tempo d’attività una serie innumerevole di tele tutte delle stesse dimensioni e con una gamma di motivi tematici tanto ridotta da sfiorare la costanza iconografica. Difficile, indubitabilmente, più di tutto, orientarsi e stabilire un ordine di precedenza tra le opere che si richiamano le une alle altre, incessantemente, come fossero generati tutte allo stesso punto o secondo la stessa cadenza ciclica: frutto di una ricerca che rinuncia deliberatamente alle sollecitazioni esterne per concentrarsi e scrutare con metodo quasi ossessivo la natura e le risorse di se medesima. E tuttavia disposta anche a << compromettersi >>, se accanto a forme e colori allo stato puro riconosciamo persistenti residui di figuralità e sempre attivo il bisogno di tentare il confine tra lo spessore e la resistenza della materia e la possibilità del suo dissolvimento, nella penetrazione nell’astratto.
Ecco dunque profilarsi deiezioni di aride sassaie, avanzi di città dirute, strane e sin mostruose formazioni carsiche, animate architetture minerarie: un universo petroso in cui si annida, più petrosa di tutti, la presenza dell’uomo. Materia organica e materia inorganica fuse insieme, indissolubilmente, come è di tutto ciò che è creato e che forma la sostanza della vita, sempre uguale e sempre diversa, in perpetuo divenire. E sono forme sorte dall’invenzione estemporanea, quasi per il rapprendersi spontaneo del colore sulla tela ed altre che si sentono invece generate da una lunga consuetudine con la tradizione figurativa, dove l’antico, quattro e seicentesco in particolare, convive accanto ad alcune tra le maggiori voci del Novecento, con un arco d’intesa che va da Sironi a Chagall: non mai citazioni puntuali, però, quanto piuttosto avvertite reminiscenze, combustioni di memoria, echi risalenti da un entroterra culturale che si intravede abitatissimo. Inedite o di nuovo riscoperte, sono concepite sempre, in ogni caso, all’interno di quella regola etica e stilistica che è l’uniformità, la costanza, la ripetizione, tanto forte ed assertiva da comprendere in sé anche le varianti. Le quali, del resto, si riducono quasi soltanto alla diversa qualità e consistenza degli impasti, ora scheggiati e fibrosi come teli di canapa, ancora leggeri e trasparenti come irradiazioni gassose; e specialmente al colore, giocato tuttavia anch’esso su un arco bassissimo di poche tinte: seppie, terre, ruggini, antraciti e, su tutte sovrano – come è subito evidente – il grigio. Salvo, a tratti, lo spazio per qualche rara accensione di giallo, di blu cobalto, di cremisi. E qui meriterebbe recare ad esempio almeno le Forme con la macchia gialla (tav. 48) e la seconda versione di quelle con la macchia blu (tav. 46) nel loro esplosivo potenziale cromatico o qualcuna delle ultime immagini di città dirute nelle quali par di cogliere ancora, sul limite della dissoluzione formale, i tratti caratteristici di Barga, come quella che dall’alto del colle vediamo precipitare al basso in un rovinio morenico di blu di verdi e di viola graduati dal più chiaro al più scuro (tav. 38); o quell’altra che si profila in lontananza a sfondo di un paesaggio dilavato e combusto come sotto una caduta incandescente di lapilli (tav. 42). Ma queste sono per l’appunto eccezioni, nel concertato un monocromo del pittore.
Altrove e più spesso, come si diceva, è invece il grigio a dominare. Ciò che accade soprattutto in un folto gruppo di opere degli anni Sessanta, ove la figura umana, accolta nelle sue potenzialità << informali >>, torna risolutamente ad imporsi. Sono profili di uomini, donne, bambini dai volti tristi smagriti e come affaticati da una vecchiaia precoce, che si affacciano uno dopo l’altro in una lunga teoria sulle tele; un’ossessione privata, forse, ad alimentare la quale devono aver ben contribuito le letture avviate o riprese a quest’epoca dal pittore: Dostoevskij e Tolstoj, in particolare, come dell’amatissimo Poema pedagogico di Makarenko; ma forse anche un monito per << le magnifiche sorti e progressive >> dell’umanità giunta all’emancipazione economica e un riconoscimento per tutti gli << umiliati e offesi >> che la vita nel suo corso forzato impietosamente si lascia dietro. Ciò che più importa notare, però, non è tanto il carattere morale quanto l’elaborazione formale di queste figure: ricavate in una pasta spessa e densa che è la stessa di cui è fatta la nicchia, recesso petroso o golfo d’ombra che le ospita, serrandole a valva.
In tanta astinenza dal colore – che qui certamente raggiunge il suo vertice massimo – elemento primario di definizione della forma viene ad essere la luce. Una luce che filtra radendo l’oscurità, penetra con rapidi sbattimenti tra le pieghe dei volti, sulle mani, disegna l’anatomia essenziale di quei gruppi familiari che hanno per Cordati la forza di archetipi. Come vediamo nella Maternità qui esposta (tav. 36), testo davvero esemplare in tal senso, dove il richiamo al Seicento, visibilmente meditato da Carrière – al cui illuminismo, del resto, sappiamo con quanta attenzione egli guardasse sin dai primi anni – è mezzo alla luce per confermare la sua funzione maieutica, estollendo le forme dalla bruma e fissandole un attimo prima che scompaiano, risucchiate nel magma indifferenziato della materia. La quale ha poi sempre, invariabilmente, il grigio ferrigno dell’arenaria, la pietra di cui sono fatte le case e le strade di Barga e l’intero paese, sino ai recinti che chiudono, in alto l’arringo del Duomo.
Con queste opere, la lunga, intensa giornata creativa di Cordati volge al termine. Gli ultimi anni, invece di allentargli la lena, sono quelli che lo vedono più attivo, impegnato in un esercizio che ha qualcosa di febbrile e dal quale non si distoglie se non per brevi intervalli, quanto basta per una passeggiata, un libro una lettera alle figlie o agli amici. E, tra queste poche, una all’amico Gino Novello che vorrà ricordare a complemento dei suoi pensieri sull’arte, quali e con quale riserbo si è visto, aveva esposto esattamente vent’anni prima scrivendo per Magri: << […] ho smesso, per ora, di sfare e ho già sporcato diverse tele nuove e mi son fornito di una discreta scorta per sporcarne ancora […] >> /26. Dove, sotto lo spirito caustico e sempre indocile del toscano, in un misto di umiltà artigianale e di implacabile autocritica, scopriamo più fermo e ribadito che mai l’atto di fede nell’arte: il solo argomento che poteva ancora appassionare un vecchio rimasto in compagnia esclusiva dei colori e dei pennelli, insediato in un tempo che ha ormai, come sola misura, la realtà delle opere. Vigilissimo, in mezzo alle sue tante tele ancora da << sporcare >>, Cordati si ritira dunque dalla scena, in silenzio. La sua ultima immagine – quella consegnata dagli amici e dalle figlie e alla quale anche noi vorremmo affidare la chiusura di queste note – lo ritrae così: fermo, di spalle, davanti al cavalletto come in uno dei pastelli dipinti tanti anni prima, nella luce dorata che piove dalle grandi finestre, mentre fuori la stagione rinserra i suoi colori alle porte dell’inverno e soli resistono, sempreverdi, i due abeti dell’orto e poco più in là, oltre le mura, sul Fosso, quel grande cedro del Libano che allarga le sue radici sino al cuore dell’antica Barga.
Paola Paccagnini
/1 A. Parronchi, Artisti toscani del primo Novecento, Firenze, Sansoni, 1958, p. 106.
/2 Il ritratto senza firma è custodito nel Conservatorio di S. Elisabetta, l’altro nel Palazzo Comunale di Barga. L’attribuzione del primo a Cordati, consegnataci dalla tradizione sulla scorta di rilievi inerenti alla sua condotta pittorica, parrebbe confermata da alcune evidenti affinità iconografiche – stilistiche con un’opera sicuramente autografa, Colle di Caprona, quale si trova riprodotta nel fascicolo 169 – 170 della rivista <<L’Eroica>> (Milano, XX – XXI, settembre – ottobre 1932, tav. II). D’altra parte, la mancanza davvero inspiegabile della firma in un’opera <<ufficiale>> e di grandi dimensioni (cm. 120 x 70, 5) come questa, lascia un ragionevole margine di dubbio, inducendoci a credere, con l’appoggio di casi analoghi, che, ideata e magari avviata dal pittore, essa abbia poi subito l’intervento di un’altra mano
/3 B. Cordati, La mostra delle opere di Alberto Magri, <<Il Ponte>>, Firenze, VII, gennaio 1951, p. 110.
/4 Ivi, p.110
/5 Ivi, p.112
/6 Ivi, p.111
/7 Ivi, p.112
/8 Ivi, p.112
/9 Di minore interesse, nella genericità degli asserti, è a nostro avviso il brano pubblicato come autografo da <<L’Eroica>> all’interno dell’articolo dedicato a Cordati nel ’32 (op. cit. pp. 31 – 34).
/10 Cfr. l’articolo di Bruna Cordati, La casa del pittore a Barga, in <<Reporter>>, Roma 13 Luglio 1985; ristampato poi nel catalogo della mostra Bruno Cordati, a cura di A. Del Guercio, Firenze La Nuova Strozzina 15 gennaio – 15 febbraio 1987, p. 85.
/11 Ivi, p.87
/12 M. Tinti, Alfredo Muller, nel catalogo de La Fiorentina Primaverile – prima esposizione nazionale dell’opera e del lavoro d’arte nel Palazzo del Parco di San Gallo a Firenze, Firenze, Società delle Belle Arti 8 aprile – 31 luglio 1921, p, 157.
/13 Ivi, p.156
/14 C. L. Ragghianti, Bologna cruciale 1914, in <<Critica d’Arte>>, Firenze, XVI (XXXIV), nuova serie, ottobre – novembre 1969, p. 44.
/15 Ivi, p.45.
/16 Ivi, p.59.
/17 Come risulta dal relativo catalogo, alla Biennale di Venezia del 1928 Cordati inviò una sola opera, Bambino (sala 25, n. 4), che saremmo propensi a identificare con quella omonima riprodotta da <<L’Eroica>> nell’ormai più volte citato fascicolo del ’32 (tav. V) ed oggi dispersa.
/18 B. Cordati, La casa del pittore a Barga, op. cit., p. 88.
/19 cfr. i Dati biografici riportati da Bruna Cordati nella mostra Bruno Cordati, op. cit., p.76.
/20 B. Cordati, La casa del pittore a Barga, op. cit., p. 88.
/21 B. Cordati, Dati biografici, op. cit., p. 76.
/22 B. Cordati, La casa del pittore a Barga, op. cit., p. 88.
/23 G. Pascoli, Il fanciullino (1897), ora in Tutte le Opere di Giovanni Pascoli. Prose – I – Pensieri di varia umanità, a cura di A. Vicinelli, Milano, Mondadori, 1946, p. 13.
/24 A. Del Guercio, Per il ritrovamento di Bruno Cordati, introduzione al catalogo della mostra Bruno Cordati, op. cit., p. 11.
/25 Nella produzione di Cordati, l’unica opera datata, per quanto ci risulta, è Il maestro di musica (Il maestro Eulambio), recante l’indicazione dell’anno “1936”; un’assoluta eccezione, dunque, che non sapremmo d’altra parte come motivare.
/26 B. Cordati, cartolina postale inedita a Gino Novello dell’8 novembre 1971, custodita nell’archivio di Casa Cordati a Barga.
Dal catalogo della mostra
Bruno Cordati – Un pittore ritrovato
La Nuova Strozzina, Firenze 15 gennaio 15 Febbraio 1987
Antonio Del Guercio : Per il ritrovamento di Bruno Cordati
Spetta a Bruno Cordati un posto e di rilievo, per quella parte dell’opera sua che vorrei porre al centro di queste note in quel Novecento Inedito alla cui insegna Alessandro Parronchi condusse una ricognizione che ebbe per risultato il risarcimento critico di alcune figure disattese o non adeguatamente valutate e riproposte in mostre fiorentine negli anni settanta.
Su quel Novecento Inedito oggi da più parti si lavora, nell’ambito d’una ricerca critica che, avviata sin dai primi anni sessanta con la rivendicazione del fondamentale policentrismo dell’arte contemporanea, gradualmente è andata investendo aree locali, tendenze e figure, esterne o periferiche rispetto a quelle di proscenio. E raggiungeva, questa ricerca, anche Parigi, nel 1980-81 con la mostra che il Centro Pompidou dedicava ai Réalismes 1919-1939: con una prima, rimarchevole, assunzione critica al livello internazionale dell’arte italiana degli anni venti, a spicco bisogna dirlo sul più confuso sguardo alle vicende italiane degli anni trenta; da altri però, prima e dopo la mostra parigina, più attentamente riprese in esame.
Ma dirò subito che il Novecento Inedito entro il quale sta il lavoro di Bruno Cordati è più vicino a noi nel tempo, se, come credo, i risultati più cospicui del pittore di Barga sono quelli che egli raggiunse dopo la seconda guerra mondiale, ossia nell’ “ultimo terzo della sua vita” , per dirla con le parole della figlia Bruna che in un suo testo devoto e acuto ( in Reporter, 13.7.1985) sottolinea com’egli avesse preso distanza rispetto al proprio precedente percorso, e intensamente si fosse immerso in un nuovo e diverso lavoro.
Per inciso, dirò che è venuto il tempo di ricondurre lo sguardo sulle vicende – le più e le meno conclamate – successive alla seconda guerra mondiale, e di estendere ad esse quella più articolata visione, meno condizionata dai giudizi ufficializzati, che s’è appuntata sulle vicende anteriori.
È sintomatico, credo, che la distanza presa da Cordati, dopo la guerra, rispetto al proprio passato di pittore, fu da lui estesa al tempo stesso alle manifestazioni esterne della vita artistica: non più una sola mostra, non un solo gesto di partecipazione. Egli scompare nel 1979, e il discorso su di lui si apre finalmente nel 1985 per iniziativa delle figlie, con l’apertura al pubblico della casa paterna di Barga, nella quale viene offerto un ampio allestimento delle sue opere . Per dovere di cronaca, si può dire che di poco era stato squarciato, quel silenzio che era stato voluto da Cordati in vita, con la presenza – nella mostra genovese della rivista L’Eroica, realizzata nel 1983 nel Palazzo dell’Accademia – del disegno Tristezza a suo tempo dato alla rivista come copertina del fascicolo del settembre ottobre 1932.
Dirò più avanti qualcosa sulle ragioni profonde relative al suo intimo rapporto con la pittura in quel trentennio decisivo di quel silenzio voluto, di quella rinuncia ad ogni gesto pubblico. Sappiamo intanto che tale rinuncia e tale silenzio furono una chiusura netta sì, ma strettamente limitata al versante delle manifestazioni esterne. In altri termini, in quel suo comportamento non c’è nulla che possa anche da lontano somigliare a un ingenuo e insieme presuntuoso assentarsi da ogni problematica del proprio tempo. Come s’immergeva nella sua ricerca nuova, così manteneva e approfondiva un personale dialogo con aspetti e questioni tutt’altro che marginali rispetto ai fondamenti del dibattito culturale e artistico contemporaneo . Nel testo già citato della figlia, ne abbiamo qualche concreta testimonianza: quel suo, ad esempio, essere in sospetto verso il termine spirituale rivendicato nel celebre saggio di Kandinsky; l’attenzione a scrittori quali Joyce o Proust o Musil; la predilezione – assai significativa nel contesto del dibattito letterario contemporaneo – per Flaubert.
E, aggiungerei, è particolarmente interessante l’apprezzamento per il lavoro di Bakhtine su Rabelais , e il suo soffermarsi sulla considerazione che “La morte qui non spezza la serie ininterrotta della vita umana … è fatta della stessa pasta di cui è fatta la vita”. Un apprezzamento che mi sembra di meglio comprendere sulla base di alcune recenti considerazioni di Pierre V. Zima (L’ambivalence dialectique: entre Benjamin et Bakhtine, in Revue d’Esthétique, nouvelle série, n. 1, 1981, Paris) :”Aux yeux de Bakhtine, l’ambivalence et la polyphonie sont des éléments critiques opposés à la culture sérieuse des dominants, au monopole de l’ hégémonie culturelle, dirait Gramsi … En insistant sur l’ambivalence, une certaine pensée dialectique insiste – en cela solidaire avec les textes romanesques de Musil, Kafka et Proust – sur l’éclattement de l’histoire (au sense double de ce mot), pour mettre l’accent sur la négativité, la discontinuité, le refus et le choc”. L’ambivalenza, come toccarsi degli estremi, di cui Bakhtine sottolinea nella mescola rabelaisiana di lodi e ingiurie l’effetto liberatorio del riso – collisione tra due valori incompatibili – sembra aver attratto Cordati in un altro suo livello: quello d’una visione, stoica e insieme positiva, nella quale lo choc, il trauma, si ricompongono in una superiore continuità.
Ora, pare del tutto evidente – e non solo dalle testimonianze familiari – che un dato traumatico profondo ha segnato l’esistenza di Cordati. Per due volte nella sua vita, la discontinuità tragica costituita dalla guerra ha inciso sul flusso della esistenza: la prima volta, come protagonista immerso nel fango e nel sangue delle trincee della guerra del 1915-1918; la seconda, come spettatore intensamente coinvolto della seconda guerra mondiale.
È un fatto che nell’intima concretezza della forma, del linguaggio, ossia laddove il pittore parla entro e al di là dell’iconografia, quel fango e quel sangue che sappiamo aver su di lui inciso in profondo hanno lasciato scarsa traccia prima degli anni Quaranta. Ed è un fatto pure che a tanta distanza di tempo nel lavoro degli ultimi suoi tre decenni, la traccia del trauma si rende evidente.
Ricordo, al momento della morte tragica di Che Guevara, quando immagini pittoriche del Che fiorivano da ogni parte, che parlando di queste immagini Roberto Longhi disse che le espressioni più significative e alte di quell’evento non necessariamente sarebbero state quelle più immediate; e che da qualche parte, inaspettatamente, la risposta dell’arte a quell’evento forse sarebbe venuta.
Per analogia vorrei dire che, per Bruno Cordati, il tema fondamentale della sua arte è precipitato nel secondo dopoguerra dopo una lunga incubazione fatta di sondaggi in direzioni diverse, e di soste su risoluzioni diverse: per finalmente, di colpo in apparenza, coagularsi in un dettato del tutto coerente a una più segreta e ardua verità esistenziale dell’artista. E allora si comprende meglio, al di là di ogni esterna contingenza o di ogni dato umorale, il perché del suo concentrarsi tutto, e ininterrottamente, su questa elaborazione, che egli sapeva essere l’ultima è la definitiva – quella da non mancare e da non sbagliare .
Se, come a me pare evidente dalle opere, Cordati allora fu mosso dalla coscienza esatta che egli si stava dicendo nella singolarità concreta della propria esperienza di uomo e di pittore, e che questo dettato era radicato in fatti lontani virgola in un primo trauma che gli si era per la seconda volta riproposto, allora è ben comprensibile il suo comportamento: è comprensibile che del tempo, di ciò che si deve e si può fare nel tempo in una relazione lentamente distillata tra passato presente e futuro, egli avesse maturato una nozione tale da consentirgli un sereno distacco dal presente spettacolare.
I risultati definitivi di Bruno Cordati vanno collocati in quella che definirei come l’area dell’informale ampliato. Dove l’ampliamento non indica affatto soluzioni più generiche , culturali o espressive. Ma indica, tangenti alle opere che sono normalmente radunate nella categoria dell’informale (e che già per le loro reciproche differenze a volte estreme configurano un’area assai diramata) certe accentuazioni o esasperazioni materiche di qualità organica, e certe particolari sottolineature del dato esistenziale da una parte del soggetto-artista, assai diffuse attorno all’emergenza dell’informale come tendenza, e anche prima di tale emergenza.
E per il prima, mi viene naturale, nell’occasione di un testo su un italiano da risarcire, di segnalare un sovietico, un lettone, pure da risarcire tra i comprimari di questo informale ampliato: Alexander Drevin, dico, tragicamente scomparso nel 1938 nelle repressioni staliniane , che dopo esperienze astratto-cubiste era pervenuto alla metà degli anni venti a una materiata figuralità (documentata per l’Occidente nella Biennale veneziana del 1932), nella quale dette peraltro anche testimonianze – lui comunista lettone – d’impegno politico. Per dire, insomma, dell’enorme estensione nello spazio del dato materico-esistenziale prima e dopo la seconda guerra mondiale.
La pittura smeraldina, lattea e ventosa del lettone e quella petrosa, infiammata e brunita dell’italiano hanno a minimo comun denominatore, assieme a tutte le altre espressioni che fanno corona alle informali vere e proprie, l’essere dovute ad artisti estranei o esterni alle aree culturali toccate – direttamente o per vie mediate – dalle filosofie dell’esistenza, tra le due guerre e dopo.
Sono artisti invece, che sulla base di personali e concrete esperienze di vita e di cultura pervengono isolatamente ad una propria secessione dalla cultura figurativa trasmessa (e dal loro stesso passato di partecipi d’una cultura trasmessa); una secessione che, fomentata da un’esigenza assoluta di autenticità, a sua volta fomenta la ricerca di un’espressione irriducibile alle misure divulgate, anche a quelle che si definiscono di avanguardia. Analoga da questo punto di vista a quella dei protagonisti dell’arte informale, la loro ricerca però se ne differenzia perché estranea – più o meno decisamente – al tema d’un tragico scacco umano, che segna l’icidenza degli esistenzialismo recepiti in ambito informale.
Un’ampia scala, dunque, di inclinazioni psicologiche del soggetto-artista si manifesta – al di qua della soglia tragica dello scacco – negli artisti di cui parlo: che non esclude nemmeno una polarità ilare e lieve, teneramente fantasmatica (com’è in Drevin), Anche se appare prevalente un’attenzione, fra condizione drammatica e riscatto possibile, della quale Bruno Cordati offre un esempio oggi ritrovato.
Non so se il pittore di Barga abbia in questa fase della sua ricerca formulato pensieri a proposito di Courbet. Ma certo, alla riconduzione de-gerarchizzata d’ogni cosa presente sulla terra a una comune qualità di materia pulsante, che Courbet rinnova a partire dal proprio amore per la peinture sombre seicentesca fondata da Caravaggio, a tale riconduzione bisogna far riferimento anche per Cordati.
Il quale appartiene però ad altro ambito da quello che nel quarante-huitard Courbet esasperava il rifiuto delle idealità spiritualistiche, e dunque provocava l’orgogliosa rivendicazione d’uno sguardo materializzato alla pan-materialità del tutto; al punto da rovesciare in elogio l’accusa di guardare le cose con un “oeil de vache”.
Voglio dire che Cordati, nell’atto stesso che de-gerarchizzata le fenomenologie del mondo – pietre, vegetali, apparizione umane, cieli – e le propone come fatte della medesima materia, le miscela al punto da rifonderle in un tessuto animato, agitato da un moto che arrovescia il senso originario della pittura di materia; la quale implicava – anche quando l’iconografia non la rivelava – una sorta di centralità dello stato fermo della natura morta.
Dal segreto moto corpuscolare della materia courbettiana, al quale risponde su l’ultimo scorcio dell’ Ottocento il moto corpuscolare palesato della materia-luce divisionista, si passa qui – in consonanza profonda con l’area vasta delle emergenze della soggettività nell’arte europea ed extra-europea – a un moto composto: esito visibile del moto incessante delle cose guardate piuttosto come eventi, e della inquieta mobilità del soggetto-artista che dice del suo coinvolgimento in tali eventi.
Sicché, la pittura si screzia, e si agita e nel suo articolare le poche cose d’una iconografia essenziale in un dettato nel quale esse compaiono più come evocazione figurali che non come oggettivazioni figurative, le offre alla luce come schegge dure, o come fluenze morbide, o come visioni sfioccate.
Una luce che di certo è di natura, in una sua prima origine: ma che si trasforma in luce della memoria; anzi, del ricordo frammentario che un raptus trasfigura per riproporlo – ora allucinato, ora incrinato da nostalgia, ora misteriosamente indecifrabile, ora trasformato in icona d’una religione perduta – come momento privilegiato del soggetto.
Quell’alternanza di cui ho detto, fra scheggiata durezza, fluente morbidezza e sfioccatura visionaria, segna i termini drammatici dell’attenzione ingaggiata dal pittore con se stesso, col proprio passato, e con l’arte stessa, alla luce di meditazioni di cui s’è visto come fossero tutt’altro che peregrine o ingenue.
Un alternanza, un ambivalenza – per riprendere le citate considerazioni di Zima su Bakhtine e Benjamin – che partono dalla discontinuità, dal trauma, da una frattura individuabile nel vissuto, per cercare, tenacemente, una qualche ricomposizione. E che lo abbia tratto fortemente, quel pensiero sulla “morte (che) non spezza la continuità della vita umana (ma) è fatta della stessa pasta di cui è fatta la vita”, la sua pittura ben lo conferma: per quel flusso all’interno d’una sostanza la cui perennità è proprio nell’alternanza, drammatica e vitale, delle sue manifestazioni, entro le quali la medesima “pasta” oscilla tra una magmatica visionarietà e una petrosa nettezza.
Si deve dunque riconoscere che Bruno Cordati ha raggiunto il proprio intento, e che erano ben fondate le ragioni del suo accanirsi in solitudine sopra una ricerca garantita soltanto dalla propria necessità, al di fuori, anzi al riparo, da qualsiasi crisma esterno. Sono ben rari, che io sappia, i casi di artisti che si siano volontariamente collocati nel Novecento sconosciuto. Ancora più rari, fatalmente, i casi probanti. Un atto dovuto, perciò, il risarcimento critico del suo apporto, che ora s’è avviato con queste prime iniziative della sua famiglia e della sua città.
Dal catalogo della mostra
Bruno Cordati – Un pittore ritrovato
La Nuova Strozzina, Firenze 15 gennaio 15 Febbraio 1987
Cesare Garboli : Un giorno a Barga
Si può essere un professore di disegno, un pittore di Accademia e di scuola, e un artista fuorilegge? Di Bruno Cordati, pittore sul quale è sceso, col tempo, un oblio pari alla notorietà anche nazionale di cui fu gratificato per un certo periodo in vita, si occuperà in questo fascicolo commemorativo, con la sua competenza e la sua intelligenza, l’amico Antonio Del Guercio; e mentre sto scrivendo queste righe, io stesso mi aspetto di sapere da Del Guercio tutto quello che, sulla vicenda e sulle qualità formali della pittura di Cordati, sul posto che questo pittore ha occupato nel 900, non ho mai letto da nessuna parte.
Io posso contribuire a ravvivare la memoria di Cordati solo con delle impressioni personali; meglio, col ricordo di una giornata passata in compagnia della pittura di Cordati nella sua città, nella sua casa, a Barga. Questa giornata – forse una domenica – si è fissata con una certa intensità nella mia memoria e vi ha lasciato una traccia fluttuante, mobile; ma non so se attribuire questa mobilità (quest’inquietudine) alla labilità con la quale si comportano di regola i ricordi, o, al contrario, a certi tratti formali, discontinui ma ritornanti, dei quadri che avevo sott’occhio, proprio come li aveva lasciati, lì in casa, appena finiti, o non-finiti, il pittore: questi quadri mi sballottavano fuori dalla pittura, mi spingevano al di là della pittura e al di là della “forma”.
Naturalmente il mio desiderio, il mio tentativo di tenere ferme delle sensazioni le trasforma in un rilievo critico: Cordati è infatti un pittore che ha scoperto con un certo ritardo non dico il gusto del informale o le tecniche dell’astratto (che può essere, nel Novecento, anche una rivelazione “esteriore”), ma qualcosa di più intimo, di più passionale, una faccia di se stesso, latente ma in agguato, in eterno agguato – il proprio espressionismo, sempre manifesto è mai envisagé, come se Cordati, nello spingerci con violenza fuori dalla pittura, nel sorpassarla, si limitasse a suggerirci tutta la paura del salto, ma solo quella. La pittura viene aggredita infranta come un idolo; è un volto al quale si chiedono delle risposte, nel momento in cui si diventa certi che esso è impenetrabile; la fede dell’artista subisce una frustrazione è un tracollo pari all’impeto selvaggio e disperato con la quale la richiesta viene rinnovata, iterata, ripetuta nella sua “vanità”.
Un lungo giro, una sorta di periplo o d’ispezione amichevole in un appartamento disammobiliato che ritornava su se stesso, mi aveva fatto conoscere tante maniere diverse. Tante fasi, tante vicende di una stessa mano. I quadri che avevo sott’occhio erano accatastati in un’ala di Palazzo Bertacchi (casa Cordati è un palazzo) in stanza che si infilavano, in fuga, una dentro l’altra; alcuni sembravano disposti e ordinati come per una mostra, altri erano ammucchiati, allineati lungo le pareti come se il pittore avesse appena finito il lavoro.
Cercherò di classificarli. Alcuni erano astratti, di un astrattismo non geometrico ma informale, più vicini a un bisogno di esplosione che di composizione – bisogno di demolire, di ripartire da zero, di liberare il visibile dalla sua incrostazione figurativa e di farlo in una sostanza indistinta e primordiale; altri erano quadri d’accademia, quadri di Ottocento postumo dipinti da un artista con le carte in regola, ma capace, all’occorrenza, di lanciare acuti imprevisti, fuori di scuola; altri infine rientravano in un’area che si potrebbe definire indifferentemente di realismo socialista avant-la-lettre, o di fascismo di sinistra, populista dai colori accesi e dal disegno rude, ma classico e squillante: un passo più in là, e si potrebbero già intravedere, sotto la convenzione, dei Guttuso. Curioso che questa fase, o questa maniera (basta essere un po’ provveduti per assegnare a ognuna di queste esperienze una data, non si può sbagliare), trovi la sua fissazione formale, il suo clik, in una serie di tele bulgare, quadri che risalgono agli anni, durante la guerra, in cui Cordati insegnava a Sofia: facce e volti del popolo bulgaro sembrano regalare al pittore tutta la loro concentrazione dolorosa, il loro mutismo, l’espresso e l’inesprimibile della sofferenza, ed intanto liberarsi, allo zenith del realismo pre-socialista, in una piccola gloria esotica, in un sobrio trionfo del color locale.
Intermedi tra queste fasi, c’erano, confusi qua e là, ma ritornanti, dei quadri più insidiosi, più misteriosi. Catalogarli non è facile: sembrano tutti uguali, mentre la loro varietà si fonda proprio sulla capacità di parlarci con accenti sempre diversi della stessa cosa, e quindi sulla ricorrenza ossessiva di varianti quasi insignificanti. Questi quadri stingono su tutta la produzione di Cordati, la inseguono, la epilogano, la risucchiano. Hanno tutti (come del resto i quadri bulgari) lo stesso soggetto: quella che quella che in accezione russa, dostoievschiana, si dice la “povera gente”; i poveri: ma i poveri buttati là dalla vita, mentecatti, miserabili, offesi da quella stupidità e da quello stupore opaco che danno le sofferenze senza speranza.
Formalmente, questi quadri si situano, a mio avviso, al centro della produzione di Cordati perché si dividono quasi equamente fra il manifesto post-bellico, neo-realista e socialista, e il richiamo dell’informale, ma senza partagér nessuna delle due maniere: essi demoliscono, mentre ci parlano di “poveri”, il realismo populista, e forniscono all’informale, anche se schiettamente figurativi, anticipandolo, sua più profonda legittimazione. Sembra che il vero desiderio di Cordati, in questa fae, sia di offendere la pittura, e di farcela apparire coi colori che sono, in certo modo, l’antipodo, il rovescio della pittura: tristi e plumbei, deprimenti, come uno che stracciasse le vesti di una creatura un tempo amata per il piacere amaro di svergognare la nudità, in luogo di farla trionfare. Colori acidi, bluastri, malati,”da miniera”: sabbie, carboni, aranci smorti e polverosi, muffe azzurrastre, marroni opachi e ciechi, e, sovrano, in tutte le gamme, il grigio, il grigio atono delle pietre e dei sassi; nessuna luce, nessuno scintillio. Timide greggi di gente offesa, poveracci spaventati e instupiditi, donne, spesso, e bambini, ricoperti di lane e cenci, infagottati come sfollati o emigranti, si radunano a oziare sulla superficie del quadro risalendone dal fondo come fantasmi, o simili a graffiti che il raschietto tiri fuori dalla roccia grattando nella petrosità. Queste figure di sogno senza sogni, queste larve di pietra si stringono, sia fratello, si “offrono” con l’indifferenza e la predestinazione all’oblio dei “segnati” agli angoli delle strade, quando li guardiamo con la pietà che scappa e passiamo oltre, svelti, perché la vita non è lì, la nostra vita che incalza. La ricognizione di questi esseri, in Cordati, è ossessiva, non ha mai riposo; sembra che Cordati non pensi ad altro che a “materializzare” questi sciagurati sotto due aspetti quasi costanti, invariabili: a volte le figure si ritirano, in gruppo, verso il fondo, come madri col figlio al collo che nascondano una vergogna, e, impaurite, si lasciano ingoiare dalle viscere e dalla cavernosità del quadro fino a svanire dentro una grotta senza contorni, indistinta, galleggiante come nei sogni; oppure vengono avanti, al proscenio, e si offrono agli sguardi senza nessun pudore, ma anche senza espressione, senza occhi, con quell’oscenità spenta che è di certi atteggiamenti manicomiali.
È in questi quadri che ho visto configurarsi, durante la mia visita, il destino di un pittore. Ero stato invitato a casa Cordati dalle due figlie del pittore: Luigia, militante comunista a La Spezia, insegnante di matematica, e Bruna, insegnante di lettere a Pisa. Oltre alle due ragazze (non più ragazze, ma io le vedo così), i loro figli, qualche ospite, come me, occasionale. Bellissima colazione, indimenticabile, a base di verdure fresche, porri, cipolle, radicchio, passato di verdura mista, ricotta, vino leggero e secco, frutta; era primavera, maggio, ma si sentiva ancora vicino l’inverno perché eravamo intorno a un grande tavolo nel salone centrale di Palazzo Bertacchi – e in queste grandi e vuote sale di palazzi decrepiti, fatiscenti, disadorni, che portano i segni della nobiltà di una volta, insieme alla vecchiaia, alla solennità, all’austerità, all’umidità, si sente, anche nel cuore dell’estate, mai del tutto spenta, completamente dissolta, la presenza dell’inverno – come se il ricordo del freddo si conservasse ibernato nell’ombra e nella spaziosità degli ambienti, e nella vetustà di ogni pietra. Io amo questi vecchi palazzi toscani dai grandi finestroni incassati, il soffitto a cassettoni, le cornici delle porte tarlate, i fregi che smuoiono alle pareti e l’impiantito di cotto annerito che lo scalpicciare dei passi, il tempo, il va e vieni ininterrotto hanno ondulato e levigato come il pavimento delle chiese. Abito anch’io, non in un palazzo, ma in una casa toscana umida e fredda, fredda e buia d’estate, gelida e luminosa d’inverno, quando i rami degli alberi che la circondano sono spogli; e, a colpo d’occhio, so riconoscere il segno che ha lasciato l’umidità, i segni del freddo e del tempo – i segni della sopravvivenza. Una delle figlie di Cordati, Luigia, mi lesse forse nel pensiero.
“Noi riscaldiamo, quando veniamo d’inverno, ma mio padre lavorava al freddo. Si buttava addosso un eskimo e dipingeva per ore, sembrava che il freddo non lo sentisse “.
Sul retro di Palazzo Cordati, che si apre in una delle strette vie del cuore di Barga, infossato, c’è un piccolo giardino selvaggio, dai folti cespugli incolti; dalle finestre più alte, si vede verdeggiare, giù in fondo, come dall’alto di un pozzo; due abeti giganti, due bestioni dal pelo soffice e vellutato si slanciano da lì sotto, raggiungono le prime finestre, sorpassano il tetto, e bisogna torcere il collo per vederne la cima nel cielo. Quante volte Cordati avrà posato l’occhio su questi abeti? Ma non c’è natura, riquadri di Cordati, non c’è verde né letterale né metaforico. Strano, un pittore di Barga, nella val di Serchio, una valle così ricca di vegetazione d’ogni varietà e tipo, d’alto e medio fusto, di castagni, di sottobosco, e di acque. Dimenticavo: durante il mio periplo, avevo osservato delle tele seminuove accatastate in una piccola stanza di sgombero, e avevo cominciato a spostarle, sbirciando dentro. Ma Bruna, una delle mie ospiti, perché passassi oltre, non erano di grande importanza. Erano tutte uguali: i soliti ” poveri “, i gruppi di miserabili, ma senza più nessuna ricerca formale. Erano studi inerti; figure appena accennate, disegnate con un marrone temperato e chiaro. Erano tele ” seriali “. Ed erano innumerevoli. Cordati aveva dipinto, quasi meccanicamente, lo stesso tema infinite volte.
Era ormai quasi sera. Sprofondato nel sedile anteriore di una vettura di amici, guardavo correre un paesaggio che conosco: Ponte all’Ania, il Serchio, il ponte del diavolo, Borgo a Mozzano, Ponte a Moriano, le mura di Lucca, la val Freddana, Camaiore, la ciminiera della mia casa. A qualche battuta di conversazione animata, infervorata, aveva fatto seguito, come succede nei ritorni in automobile (se alla guida è qualcun altro) un po’ da assopimento. E con grande semplicità, come se ogni punto, ogni pallina della mia giornata barghigiana trovasse da sola la buca in cui accendersi, vedevo disegnarsi, nell’immaginazione, una figura inattesa. Era impossibile non ricollegare tutta la vicenda della pittura di Cordati alla storia iconografica, all’avventura culturale di Saturno così come il dio (e il pianeta) ci è stato descritto nel famoso e “trino” libro di Panofsky, Saxl e Klibansky. Tutto congiurava a fare di Cordati un campione Saturnino purissimo, così coerente e sistematico da lasciare interdetti: la malinconia, la solitudine, il freddo, le cose vecchie dentro e intorno a sé, la vita ritirata e sdegnosa, passata, al sopravvenire della senilità, in un vecchio palazzo tutto per sé, disadorno e decrepito; e soprattutto, l’incuria di se stesso, e l’amore quasi fanatico, maniacale, per i poveri, i mendicanti, gli irregolari, i falliti, i vinti, i ” figli di Saturno “. Non manca perfino quella prova che, le storie gialle, è di solito un piccolo colpo a sorpresa. Secondo i teorici medievali, Saturno abita i luoghi solitari, vetusti ma ” idrici “; abita nelle vecchie case di campagna vicino all’acqua.
Non voglio togliere alla pittura di Cordati, o ridurne, il forte significato sociale. Ma il socialismo, il populismo, il realismo sembrano una strada che porta, nella vicenda di Cordati, una cognizione diversa. Fisso sulla miseria e sulla povertà, Cordati ha fatto della povertà una metafora. Per lunghi anni questo pittore ha spiato il punto dove la vita diventa nera e infeconda. La pittura di Cordati non ha nulla di folle; eppure quest’uomo non ha cercato è desiderato altro che incontrare, nella sua vita, e di tenere ferma davanti a sé, fronteggiandola, l’immagine della malinconia e della follia.
<<Reporter>> , Roma 13 Luglio 1985
La casa del pittore a Barga – Bruna Cordati
È molto difficile per me scrivere di mio padre. L’amore e la ,lunga consuetudine confondono: rimangono cose che la memoria sente come fondamentali; non ne vengono in mente altre, magari le più importanti, alle quali l’assuefazione ha tolto significato. Inoltre, di un lavoro che è durato ininterrottamente dalla prima guerra mondiale agli ultimi anni settanta, tendo a ricordare meglio gli ultimi decenni: non solo perché più vicini, ma anche perché una maggior libertà dalla famiglia mi ha consentito di riannodare con mio padre rapporti più stretti e prolungati.
Così da qui e da ora, com’è il suo verso naturale, si avvia e si forma il ricordo, strettamente legato a Barga dove si era ritirato gli ultimi trenta anni della sua vita. Questo paese è sempre stato un punto di riferimento del suo pensiero; incanalava il suo lavoro, gli dava misura e ritmo; era un punto di vista fermo, familiare, comprensibile. Questo paese: e nel paese, questa casa dove ora si tiene la mostra. Qui aveva dapprima solo le stanze dello studio, finchè non potè averla, restaurarla, farne il luogo di raccolta dei suoi quadri.
Lo dice bene Ernesto De Martino, che << alla base della vita culturale del nostro tempo sta l’esigenza di ricordare una patria – per non esser provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l’opera di scienza e di poesia riplasma in voce universale>>. Continuamente tornava alla memoria di mio padre quella Barga piccola e chiusa della sua infanzia, grigia di pietra, con infissi alle mura dei suoi nobili palazzi gli anelli di ferro per attaccare i muli; una vita quotidiana dal ritmo lento, un po’ superbo e malinconico, che è la musica di tanti suoi quadri.
Così la sua vita tendeva all’immobilità, al radicarsi sempre più profondamente, al guardare sempre più da vicino, sempre più nei particolari; vorrei essere nato platano, diceva; star fermo, allargarmi sempre più nelle radici. Diceva che non occorre cercar una veduta storica o panoramica per trovare il bello: basta sradicare un cespuglietto d’erba, rovesciarlo, studiare il movimento delle radici, il loro rapporto colla terra, coi piccoli sassi che esse abbrancano. Gli piaceva molto quell’aneddoto attribuito a Gonciarov, quando fu chiamato sul ponte dal capitano della nave cui sembrava che lo spettacolo grandioso della tempesta fosse particolarmente adatto a un artista; Gonciarov guardò in giro corrucciato, brontolò: un gran disordine! e se ne tornò in cabina. Sempre infastidiva mio padre lo sforzo visibile nel lavoro, il gonfiarsi, l’ansimare verso il risultato; sentiva che la forza è dentro, e da dentro indica quel minimo che occorre per arrivare, quello scarto delicato, quel rapporto che fa sì che il quadro sia <<a posto>>.
Si sviluppava così nel suo lavoro quella che lui interpretava come una tendenza alla semplificazione. Non lo interessavano più i suoi lavori del periodo pienamente figurativo degli anni venti e trenta, dipinti in parte a Barga, in parte in Veneto, a Budapest, a Parigi. Nemmeno lo interessava più il gruppo dei quadri dipinti in Bulgaria, dove era stato nei primi anni quaranta, e dove era stato attratto dai vividi colori dei villaggi turchi e zingari, dalla bellezza solenne delle donne zingare. Ne era nato un piacere – che appartiene solo a questo periodo – per un colore e una pasta ricchi e pieni, luminosi, che si era allargato anche a certi nudi e a certi paesaggi di questo stesso periodo e luogo.
Adesso, tornato a Barga per lo scoppio della guerra, e deciso a non muoversi più, avviava quel periodo di intenso raccoglimento che doveva concludersi alla sua morte. La sua riflessione sulla pittura prendeva una strada tutta diversa. Il figurativo spaziato, pieno di prospettiva, illusionistico, cedeva via via il passo a un lavoro i cui eventi si svolgevano tutti alla superficie del quadro, la cui materia e soggetto era il colore stesso; che non richiedeva più certo l’osservazione di modelli e paesaggi, ma un ripensamento profondo di forme, di rapporti in equilibrio delicato e difficile. Diceva: voglio avere qui tutto sulla superficie della tela.
Ripensando a grandi tratti allo sviluppo del suo lavoro, si riconosce che le due guerre mondiali debbono aver costituito due cesure fondamentali della sua vita. Della prima parlava con riserbo, con quel tono basso che gli era caratteristico. Erano stati quattro anni di trincea, e una medaglia al valore presa sul Piave; gli ultimi due anni al comando di una formazione speciale di ex carcerati, coi quali si era inteso benissimo. Parlava della pioggia, la cosa più tremenda, diceva, della guerra in trincea: all’inizio cercavi di ripararti in qualche modo, in quelle trincee quasi scoperte, con teli impermeabili o altro; e cominciavi a sentire l’acqua che ti si infilava nel colletto; quando eri fradicio, e ormai ogni precauzione era inutile, era quasi una liberazione, non ci pensavi più. Ma anche i topi erano una piaga, e bisognava mettere di guardia l’attendente con un bastone, per poter vincere il ribrezzo e poter dormire. Per il resto, qualche rapida descrizione: il soldato colpito al cervello che attacca gran voce all’avvio di un ritornello – Affacciati alla finestra … – prima di cadere fulminato; o il colonnello venuto in visita alle trincee che dopo aver camminato a lungo chino per ripararsi, si alza con una mossa naturale per massaggiarsi la schiena indolenzita e viene preso alla testa; o le lunghe conversazioni con gli austriaci durante le ore di pausa. Una cosa sola ricordata con una smorfia di sofferenza: le licenze, la gente che in treno si scostava per paura dei pidocchi, la gente che faceva la solita vita fin dalle retrovie, e più ancora verso l’interno.
Due anni, verso il trenta passati a Gorizia, furono l’occasione di un riconoscimento minuto del Carso, del San Michele; si ripercorrevano i camminamenti e le trincee; si vedevano i ragazzi ancora alla ricerca del ferro interrato. Ne nacquero molti disegni, e un pastello dei migliori.
Ma nel decennio che seguì la guerra vi fu una vera esplosione di lavoro. Nei grandi quadri domina come tema la figura umana, una umanità assorta, colta in un momento di riposo dalla fatica quotidiana. Pochi paesaggi, e soprattutto, cosa proprio sua caratteristica, mai panoramici: qualche tratto di tetti, di grondaie barghigiane, col gusto di sottolineare l’andamento geometrico delle linee che convergono, divergono, cadono e si innalzano.
Tutto questo lavoro ha a parer mio un primo livello di lettura, quello che tutti coglievano e colgono con emozione, cioè l’evidenza rappresentativa e l’intenzione tematica. Ma approfondendo l’osservazione si trovano, aldilà di questo, alcuni caratteri che permarranno in seguito in lavori apparentemente diversissimi: non solo la negazione totale della rapidità e dell’abbozzo, ma come una forza di gravità per cui il quadro consiste in tutte le sue parti, e ogni forma si esprime come se portasse a compimento per suo conto tutto un processo di pensiero: un rapporto di colore tra la parete e le spalle della persona che vi si appoggia, il verso di una mano d’uomo sul tavolino di un’osteria, un profilo che si perde nel sonno, vi si cancella e quasi si annulla, una donna distesa in una calma composizione orizzontale: e cogliamo la lucentezza della pelle tesa sulle ginocchia abbandonate, il braccio che si allunga in primo piano quasi a commentare la linea della bella persona.
Questo senso profondo della composizione, la comprensione della sua autonoma importanza di ogni minimo fenomeno è una delle direttrici del quadro; e fa contrasto con l’intenzione compositiva più evidente, che si accompagna al tema e lo sottolinea. Questa interna divaricazione dà ai quadri un loro peso peculiare, un modo calmo e riposato di occupare lo spazio. A proposito di questo equilibrio mi viene alla mente una frase di Kandiskij: <<naturalmente ogni opera d’arte è quieta, solo che ai contemporanei riesce difficile trovare quest’intima quiete (nobiltà). Ogni opera seria risuona interiormente con le parole, tranquillamente nobilmente proferite: sono qui>>.
Con Kandiskij però mio padre polemizzò una intera estate, leggendo Lo spirituale nell’arte. Già il titolo non gli piaceva, con quel termine spirituale che lo metteva in sospetto. Mentre condivideva tutte le parti tecniche, di mestiere, gli sembrava pericolosa l’impostazione del pensiero. Ad esempio, là dove Kandinskij parla del rischio, per un pittore, di privarsi della possibilità di determinare una vibrazione interiore con un oggetto plasticamente rappresentato, mio padre contestava che questo rischio esistesse: noi viviamo in mezzo a queste forme, di queste forme è fatta la nostra capacità di vedere, cosa possiamo rappresentare se non questo? La vibrazione in chi guarda proviene appunto dal riconoscimento della sua propria esperienza visiva.
Era sua caratteristica ritrarsi da ogni affermazione che presumesse una qualche sicura conoscenza. Per questo più che i critici gli piaceva leggere i narratori e i poeti. Aveva un modo particolare di leggere, un dialogo continuo con lo scrittore; ad esempio non diceva mai ‘guarda com’è bello qui’, ma ‘guarda come ha fatto bene’; lo emozionava ogni soluzione tecnica riuscita, leggeva assaporando i problemi e le soluzioni. Gli piacevano molto i narratori del novecento, joyce, Musil, ma lo disturbava doverli leggere tradotti; perciò passava più tempo coi francesi, che poteva leggere in lingua – Flaubert, Maupassant, Proust, ma soprattutto Flaubert – e cogli italiani. Fra gli italiani, l’opera che ha letto forse più a lungo è l’Orlando Furioso; l’ultima rilettura fu lentissima, gli durò per mesi e mesi. Leggeva alla sera, quando la luce per lavorare era tramontata. Passava dalle sue stanze di studio a quelle di abitazione, si lavava a lungo le mani sporche di colore e odorose di acquaragia, prendeva un tè, e si sedeva soddisfatto dicendo: io ho lavorato, ora vediamo come ha lavorato lui. Seguiva con particolare gioia il filone di Astolfo, ed era contento quando il personaggio rientrava nel racconto. L’unica sua pittura che nasce direttamente da un libro è proprio un piccolo quadro affollato e pieno di movimento, Astolfo che fugge a cavallo con in grembo la testa di Orrilo, mentre Orrilo decapitato lo segue a ridosso minacciando con le mani alzate.
Il modo di pensare in cui si radica questa visione dell’arte, della lettura, della cultura insomma è rilevante per capire il suo lavoro e la sua stessa concezione di vita. Secondo questo modo, ogni opera è un evento staccato e unico in sè; non si vedeva in lui traccia di un piano generale di accumulazione, per cui un quadro, un libro, una musica dovessero servire anche da tramite o anche solo dovessero avere una funzione altra da sé: anzi, si doveva fare spazio intorno all’opera, isolarla in modo che potesse assumere tutto il rilievo che le competeva; nessun altro uso era previsto o consentito. Tutto ciò aveva lo scopo di portare l’attenzione al modo di lavorare, al come dell’esecuzione. Ne risulta un modo di avvicinarsi all’opera d’arte che io chiamerei egualitario, senza rispetto per le graduatorie e senza fiducia nell’autorità, in cui le uniche regole sono la lentezza, la cura, l’attenzione.
Così, sia per il lavoro proprio che per capire il lavoro degli altri, la ricerca di mio padre era fortemente caratterizzata; non cercava il bello, ma il serio, il ben fatto, la traccia e lo spessore della fatica quotidiana, dell’esperienza, della sapienza artigianale: di ciò che chiamava, riferendosi al proprio lavoro, tribolare. Su questo quotidiano tribolare, e solo su questo, poteva innestarsi, come un miracolo, il bello, l’arte; ciò che non viene fatto, ma viene da sé – e tutta la bravura del cosiddetto artista nel vedere che è venuto, e non guastarlo. Fu molto contento, infatti, quando lesse una risposta che l’amato Manzù aveva dato a Liliana Madeo in una intervista sulla Stampa : “nello studio ogni mattina ci vado per un mio bisogno, come bisogno è mangiare e dormire. Non ci vado mai con l’idea di fare l’opera d’arte. Se una volta pensassi questo non lavorerei mai più. Ogni giorno spero che sia la volta buona”. Questa risposta esprimeva appunto la libertà di movimento che si ottiene depurandosi – o ripulendosi, come diceva volentieri, indicando così il processo di semplificazione – da rigidezze mentali e ambizioni sbagliate; una libertà che permette di avvicinarsi in modo sempre nuovo e aperto al lavoro sia proprio che altrui.
E a ogni tipo di lavoro, non solo a quello dell’arte. Anche come insegnante rifiutava termini (e intenzioni) come educare, formare ecc. Pensava che noi possiamo insegnare a lavorare, non mai a disegnare, a scrivere, a capire l’arte: questo, se viene, viene, come il bello, per sovrappiù.
La seconda guerra mondiale lo segnò in modo ben più profondo della prima. Non era più giovane e non era più responsabile solo di sé. I quadri rischiarono di andar perduti sotto i bombardamenti, e un autoritratto del periodo bulgaro ha ancora sulla fronte il segno di una grossa scheggia. La preoccupazione di sopravvivere era particolarmente angosciosa vecchia madre, che non riusciva a rendersi conto della situazione. Mi ricordo ancora il mio terrore mentre, dalla cantina dove mi ero calata per la botola, osservavo mio padre che vi arrivava passando per la strada lunga, tra le cannonate che fioccavano, conducendo lentamente a braccio la nonna, la quale seguitava a spiegargli che <<male non fare e paura non avere>>.
La desolazione delle rovine che di certi aspetti della ricostruzione accentuava il suo bisogno di fortificarsi nel suo paese e nella sua casa, di fissare il suo punto di vista sul moto violento che lo circondava. Questo non significava però chiusura verso l’esterno. Al contrario la radicazione, la sicurezza del punto di vista gli permettevano quella estrema libertà, quella totale disponibilità che ho cercato di descrivere. Anche la sua solitudine, completa e dichiarata, aveva dall’altra parte bisogno non solo dei pochi intensissimi affetti, ma anche della presenza, intorno, di voci e figure note. La sua passeggiata giornaliera era punteggiata di incontri, di brevi scambi di frasi, di cenni di saluto, che costituivano un accompagnamento appena percepibile ma necessario alla sua solitudine. Lo infastidiva invece in modo intollerabile qualsiasi interferenza nel suo disciplinatissimo orario di lavoro e di riposo, qualsiasi cosa che dal lavoro lo distraesse e gli creasse quelle che chiamava <<tensioni inutili>>. Non ebbe più voglia di far mostre né di permettere che fossero fatte da altri; questo avrebbe appunto costituito un disturbo al quotidiano tribolare. Al pomeriggio, quando usciva dallo studio, se nessuno doveva venire, chiudeva il portone di casa. La vastità e il numero delle stanze gli allontanavano i rumori del paese e allo stesso tempo gli permettevano di sentirli con agio e partecipazione. A volte nella grande casa si sentiva un tonfo attutito che sembrava lì e veniva invece da lontano, da uno dei palazzi della via, tutti legati nelle loro strutture; o si sentivano passi, o canti dalla strada, o motori della via di circonvallazione. Se era estate e le finestre erano aperte, giungeva a volte chiarissimo un dialogo a bassa voce, rimandato dal gioco dell’eco prodotta dal movimento articolato delle grandi strutture. Mio padre passeggiava per le sue stanze, nella poca luce del crepuscolo, accendendo solo quando non ne poteva fare a meno. Si riposava gli occhi, si distendeva camminando col suo passo sicuro, fortemente ritmato, a testa china. Non usava altre stanze della casa, voleva che nelle sue camere non ci fossero mobili inutili a intralciargli la passeggiata. Così camminava, mugolando un motivo sempre ripetuto.
La sua ricerca pittorica in quest’ultimo terzo della sua vita tira le fila di tutto il pensiero precedente. Mio padre intendeva questo processo come ricerca di massima semplificazione, necessità di lavorare en souplesse perché dalla esperienza di tanti anni scaturisce il dipinto che non chiamava mai bello, ma solo a posto. Raramente era soddisfatto; la massima approvazione era <<può andare>>, oppure <<ne fanno anche di peggio>>; ma spesso quadri venivano accuratamente messi da parte – non distrutti, perché la tela costa cara – per essere grattati con la carta vetrata. Per qualche giorno allora si poteva vedere, in due stanze contigue dello studio, due uomini in cappa grigia di cotone davanti a due cavalletti: uno era mio padre che dipingeva, l’altro il suo giovane amico Paolo che cancellava.
Vi sono in questo periodo un certo numero di quadri fatti solo di forme, non riferibili a nessun soggetto. Ma nella maggior parte di loro compare ancora, in qualche modo, la figura umana. Non sono più figure che occupano una prospettiva e la dominano; sono invece figure schiacciate dal materiale stesso da cui emergono, pietre, schegge, pietrisco; spesso c’è la bocca di una caverna da cui sembrano uscire a fatica. Questo materiale pesante a volte si alleggerisce, si fa quasi trasparente o assume colori di pastello. Ma sempre la diversità coinvolge tutto il quadro: la figura umana non è mai più importante di ciò che la circonda. Un ometto appoggiato forma col movimento del collo, coll’apertura chiara della camicia, colle braccia, colle gambe, dei tratti di colore verticale un po’ in tralice, che continuano colla stessa forza e carattere accanto a lui, costituendo la massa cui si appoggia. La donna col secchio amaranto si va alleggerendo dal basso verso l’alto, finché la sua testa quasi sparisce dentro il materiale che si fa sempre più trasparente. Una grande figura sdraiata reca al centro una macchia blu, da cui sembra generata; e costruisce attorno a sé, con la irradiazione minerale di un cristallo, una materia originata dallo stesso colore.
Questo persistere della figura era per mio padre un tormento. Diceva che si sentiva legato, impedito; condizionato nonostante tutto dalla necessità che i movimenti fossero accettabili e comprensibili. Eppure questa figura umana gli tornava sempre tra le mani, e bisognava tribolare perché non accampasse nel quadro diritti che non aveva, e tutte le necessità fossero soddisfatte. Rispetto alla contrazione e alla tensione dell’età matura, la sua vecchiaia è stata sedata, spesso serena. Non mai rassegnata, però; non ha mai visto nella vecchiaia niente di bello; è rimasto sempre dolorosamente stupito nel vedere riflesso nella vetrina un vecchio che era lui, o di vedere spogliandosi delle gambe di vecchio che erano le sue. Non era d’accordo col venditore di almanacchi, non avrebbe avuto dubbi: riavere vent’anni subito, a qualsiasi patto.
Non vi era tuttavia in lui niente di vitalistico; era malinconico, e spesso si annoiava. Ma aveva un gran rispetto per questa snocciolata di giorni che è la vita; un rispetto con alcuni tratti di parsimoniosità per questa unica cosa che abbiamo, per mantenerne la forza, la capacità. Gli piaceva Rabelais, e apprezzò gli studi del Bachtin, soprattutto per la ricostruzione della filosofia rabelesiana. Leggendo si era fermato su questi brani: << La morte qui non spezza la serie ininterrotta della vita umana … è fatta della stessa pasta di cui è fatta la vita>>; <<…doveva valutare in modo nuovo anche la morte, mostrarla cioè nella serie temporale generale della vita che continua ad avanzare e non inciampa nella morte, sprofondando negli abissi ultraterreni, ma resta tutta qui, in questo tempo e in questo spazio, sotto il nostro sole>>.
Necrologio di Bruno Cordati.
Il Giornale di Barga, Gennaio 1980, a cura di Umberto Sereni.
<<Il Ponte>>, Firenze, VII, gennaio 1951
Bruno Cordati: La mostra delle opere di Alberto Magri
La mostra delle opere di Alberto Magri, ordinata a Firenze, in Palazzo Strozzi, mi fa sorgere il desiderio, anzi il bisogno, di dire brevemente il mio pensiero sull’arte di questo forte pittore barghigiano.
Non si è parlato molto di Alberto Magri ed anche quello che è stato detto non è molto, se si esclude il saggio di A. Parronchi, comparso nel numero 5 di << Letteratura e Arte contemporanea>>. L’interesse dei vari commentatori, invece di concentrarsi sulla sostanza dell’Opera, si è disperso in ricerche secondarie se non addirittura inutili, esaurendosi spesso in vane battute polemiche.
Che il Magri, nei suoi primi tentativi, si sia ispirato all’arte medievale e si è passato poi attraverso esperienze cubiste per giungere alle opere della sua piena maturità, nulla di straordinario e nulla di importante. L’oggetto di ispirazione, come i mezzi di espressione, non possono avere importanza se non relativamente alla potenza espressiva che l’artista possiede. Ed un artista è quello che è. Se le sue possibilità non gli permettono di raggiungere in pieno la sua visione con mezzi che consentano la libera e sincera partecipazione di tutte le facoltà, è inutile che cerchi, che inventi formule anche geniali, perché l’arte non si racchiude in una formula, come non si imprigiona un raggio di sole.
Le ricerche del Magri sono state quelle di ogni epoca e la sua arte l’arte di tutti i tempi. L’artista ha sempre cercato la stessa cosa: di cogliere la realtà del suo mondo e di rappresentarla liberata da ogni elemento che la possa turbare.
Negli anni formazione artistica il Magri trovò nell’arte del periodo romanico e di quello gotico la sua fonte di ispirazione, preso come era dalla semplicità e chiarezza di quest’arte che usciva rinnovata e purificata dalle rigidezze bizantine. I primi pannelli, La vendemmia, Casa colonica, Il bucato, La casa in ordine e la casa in disordine, per quanto l’artista non abbia ancora completamente assorbito e superato la forma a cui si ispira, cantano il loro racconto dipinto a calce in superficie con note in cui già vibra quel carattere particolare che poi ritroveremo più sviluppato nei pannelli posteriori; i quali, specialmente La semina in Val di Serchio, saranno di più nuovo e sapiente colore, di maggior robustezza; e tuttavia, con la gioia per queste nuove qualità, pare rimanga un rimpianto di quella tranquilla serenità che tanto commuoveva.
Si può dire, senza esitazione, che il Magri si è formato a Barga ed a Barga è avvenuto il suo svolgimento spirituale, anche se per brevi periodi egli abbia vissuto altrove. Girovagando irrequieto e mai contento, ha studiato tutti gli aspetti del paesaggio barghigiano, imbevendosi del suo limpido colore e della poesia che emana dalla vita e dal lavoro. Il mondo esterno e quello interno erano in continua comunione riflettendosi uno nell’altro, e mai una pennellata senza scopo che non fosse suggerita dal pensiero.
La sua opera ha la freschezza, e direi la strafottenza, del lavoro di getto, dovuta, sembrerebbe alla necessità di seguire i suggerimenti improvvisi del pensiero, di fissare velocemente l’essenziale delle immagini che nella mente si susseguivano. Ma questa fretta e questo orgasmo non sono che apparenti: nulla di improvvisato e di affrettato, nulla di casuale nei risultati. Ogni linea è lungamente studiata, provata e riprovata finché non esprima chiaramente il carattere dell’oggetto, o non riassuma essenzialmente il gesto corrispondente all’azione; ogni accostamento di colore, ogni effetto di tono e, si può dire, la forma della pennellata, non sono che il risultato di vari tentativi fatti attraverso molte prove.
Se nei primi episodi del Diario il Magri ha accettato i modi del cubismo, li ha accettati non perché gli dessero la possibilità di risolvere problemi rimasti insoluti o pensasse di ottenere con quelli l’equilibrio e la robustezza che non aveva altrimenti ottenuto, ma perché, allontanatosi ormai dal modo di sentire dei primi pannelli, ha visto nel cubismo una verità di espressione propria della realtà: ha visto che, nel vero, il movimento delle linee si riassume e si semplifica nel movimento di insieme ed il volume acquista la sua stabilità nell’assorbimento del colore dei diversi piani in un piano riassuntivo ed in un’unica armonia. Il cubismo l’ha ravvicinato alla natura ed egli a più stretto contatto con questa ne ha studiato il colore facendo sue le esperienze dell’ottocento intese ad arricchire la pittura di nuove vibrazioni e trasparenze.
Il colore di questi primi episodi torino – Torino, Milano, Viareggio – è ancora strettamente dipendente dal loro tema: in un mondo troppo permeato di materialismo e chiuso ad ogni manifestazione dello spirito, il Cantastorie trascina il suo affanno ed il suo sconforto, rimuginando in sé stesso tristi pensieri sulle difficoltà che trova nella vita la sua natura sentimentale, e, forse, pensa all’inutilità della vita stessa, riflettendo all’esterno la tristezza della sua anima scoraggiata. La cruda schematicità della composizione, delineata in una colorazione inerte, non rallegrata da nessuna risonanza di letizia e di calore, esprime chiaramente e fa sentire l’oppressione di quello stato d’animo. Ma poi lo spirito reagisce all’abbattimento, come scosso da un fremito di felicità, che è forse la felicità dell’adattamento, della completa rassegnazione al proprio destino: << Il ya un au delà de l’angoisse hors de l’éternité, c’est la révolte>>.
Nel nuovo clima nascono brani del Diario con ancora accenni di cubismo, ma nel colore esulta la gioia dello spirito rasserenato.
La fonte di Castelvecchio è uno degli ultimi quadri del Diario . Il Cantastorie, completamente fuori dal suo avvilimento, attinge nuove forze alla sorgente della poesia pascoliana. In questo come negli altri quadri che seguono, di soggetto barghigiano, nessuna esitazione è manifesta, e la pennellata scorre libera, come animata da una gioia prepotente, non turbata da nessuno sforzo intellettualistico. Nasce così l’ambiente barghigiano con l’essenziale delle sue linee, l’essenziale del suo colore, senza virtuosismi o compiacenze, con nulla che sia inutile, che sia di troppo, col carattere particolare del luogo e dell’azione. La prospettiva di queste visioni, non suggerita, non incatenata da alcuna legge che non sia quella del senso della composizione e dell’accurata assomiglianza degli elementi caratteristici – unita alla brillante gamma di colore ottenuta con accostamenti franchi di toni pieni e perfettamente ambientati, che si convertono in piani robusti e senza falle – creano quella particolare caratteristica di insieme, da cui sbalza fuori l’inconfondibile personalità del Magri. Pittura vibrante questa, con tocchi larghi rudi e commossi, che concorrono vigili ad una descrizione in sintesi di motivi nati da un temperamento lirico, privo di tenere dolcezze, ma pieno d’amore; pittura che, per vie proprie, raggiunge il cielo puro dell’arte.
Perché l’arte del Magri non è stata ancora dovuta dovutamente riconosciuta? Dice il Parronchi in un suo saggio: <<Restiamo vittime tutti, più o meno, delle apparenze. E la fortuna di certi quadri è spesso aiutata, per noi, dal fatto che essi siano accompagnati da una data che coincida con la pubblicazione di un manifesto o con una mostra di gruppo rimasta famosa>>. E più sotto <<Di una involuzione dunque, una delle tante, resta vittima il Magri, dopo essere stato conosciuto e discusso nel periodo anteriore alla prima guerra mondiale; di un fatalismo che lo tiene chiuso nella sua Barga e soprattutto incapace di imporre la sua opera come un fatto vivo quale esso era>>. All’epoca delle mostre del Magri a Milano ed a Firenze si era, come ora, troppo impegnati nelle battaglie polemiche, fino al punto che queste diventavano vere gazzarre. E nell’atmosfera densa che turbava il campo dell’arte e faceva perdere di vista il principale obiettivo, l’arte del Magri non poteva avere una migliore accoglienza. È mancata quella serenità di spirito necessaria a comprendere ed a poter valutare. Ed anche ora, come allora, nella valutazione di un’opera d’arte è troppo spesso, se non sempre, chiaro il riferimento a forme d’arte che hanno od hanno avuto fortuna. Non ci interessa tanto di sapere se l’opera possiede quei dati requisiti che hanno sempre distinto una vera espressione d’arte, quanto di vedere se porta o no una data etichetta.
Siamo tormentati da troppe prevenzioni, una delle quali, per esempio, quel poco chiaro o malinteso disprezzo del mestiere. È stato espresso più volte il desiderio di tornare alla semplicità del bambino, ma certo senza por mente alla sostanziale differenza che passa tra il tornare e l’arrivare. Altro è il ritorno alla semplicità dell’ignoranza ed altro l’arrivo alla semplicità col superamento e l’assimilazione di tutto lo studio necessario alla formazione tecnica dell’artista. Non ci si dovrebbe lamentare di possedere il mestiere, ma semmai di non possederlo abbastanza. In questo senso l’aspirazione alla semplicità è l’aspirazione alla purezza espressiva che non si può ottenere altrimenti che col perfezionamento del mestiere. Ed il mestiere è l’unico mezzo per realizzare l’arte ed è dalla realizzazione di questa che scaturisce la personalità che poi rappresenta il valore dell’artista.
L’arte si unifica coi mezzi con cui è espressa, esula da questi e li comprende, essendo appunto di questi l’espressione, ed il carattere non può essere unico, non può essere unica, per così dire, la sua forma. A dare l’impronta all’arte sono i mezzi con cui è raggiunta e questi sono necessariamente vari.
Ogni artista dà fiori suoi, come ogni pianta una fioritura speciale. Ed i fiori son tutti belli e profumati, se sono veri.
Per poter capire e sentire l’arte del Magri, come quella di qualsiasi altro artista che abbia è proprio, occorre una sensibilità di mente e di cuore non frenata da prevenzioni e pregiudizi. Non può essere passata al vaglio di un gusto formato e vincolato dalla cosiddetta arte tradizionale, per grande che sia, e neppure a quello di un gusto sensibile soltanto ciò che sa di nuovo, di astruso, di snobistico.
Siffatti giudizi portano spesso povere cose nate, senza alcun calore di vita ed ha disprezzarne altre che pur palpitino di una loro vitalità.
E soprattutto ognuno dovrebbe ingegnarsi a ricevere dalle opere tutta L’emozione che queste possono dare, trarre da queste un giudizio proprio e spassionato, e non fare come molti che
<< A voce più ch’al ver drizzan li volti,
<< e così ferman sua opinione,
<< prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti>>.
Bruno Cordati
<<L’Eroica>>, Milano, Quaderno 169 – 170, Settembre – Ottobre 1932
Direttore Ettore Cozzani
Bruno Cordati è di Barga: ha 42 anni.
La sua arte sa di bosco: aria fresca sana e piena d’aromi: è arte di sentimento e di pensiero; a volte persino con tendenza a parere, più che ad essere, arte sociale: è, in una parola sola, umana.
Perciò egli si stacca nettamente dai soliti novecentisti, pur essendo tutto preso nel brivido delle correnti moderne.
Ma si è fatto da sé, ed è venuto all’arte dal grande mestiere: grande scuola. E dalla guerra: scuola anche più grande.
Sebbene fanciullo fosse sempre con la matita in mano, non trovò nella povertà artistica del suo piccolo mondo chi lo comprendesse avviasse aiutasse: fece l’imbianchino e il decoratore, perchè non aveva altro modo di sfogare la sua segreta passione.
A venticinque anni aveva già dipinto per conto suo; ma non aveva concluso nulla; e, per fortuna, lo sapeva.
La guerra lo sottrasse al martirio di non potersi esprimere; ma lo immerse in una più vasta e profonda sofferenza. Fu al fronte per tutta la durata del conflitto: ebbe la medaglia di bronzo al valore come ufficiale di fanteria.
Appena congedato si rimise al lavoro.
Pareva che la dura esperienza e le rivelazioni che la guerra dette ai migliori lo avessero preparato più di anni accademia.
Dipinse di lena: e nel 1921 espose la prima volta; ma a Lucca: pure fu subito notato; e S.E. Rosadi gli acquistò un pastello per il Ministero della Pubblica Istruzione.
Da allora ha lavorato ed esposto con ardore crescente: a Lucca ancora, e a Viareggio; ma anche a Torino, a Roma e alla Biennale di Venezia: vendite e commissioni lo hanno sorretto: la critica non s’è ancora accorta quanto egli merita del suo valore; ma il riconoscimento pieno verrà.
I suoi quadri semplici di composizione, di una bella armonia di linee, forti di rilievo, accesi e intonati di colore, si commentano da loro: basta notare come egli esprime lo stato di attenzione, per esempio nel fanciullo che si lega la scarpa, o la quiete respirante, e oseremmo dire calda, nel sonno della giovane donna che dorme, e i due diversi caratteri, quello pensoso e dolente dell’uomo e quello cruccioso e un pò spavaldo e punzecchiante della donna in Nubi, per capire come il Cordati sia fine osservatore e profondo analizzatore della forma e dello spirito; basta notare certe dure levigatezze di ginocchi fasciati di liscia e fresca pelle nelle ragazze, e palpare con sguardo attento la faccia dell’uomo appoggiato sul braccio in Attesa, per capire come il Cordati sia un plastico gagliardo e accorto.
Il suo paesaggio è arioso, vibrante, ben costruito e di largo senso spaziale, come oggi dicono.
La formula novecentista lo turba un poco; ma egli la supera, anche nel colore, che non è mai fangoso e annuvolato; ma sale anzi dai bassi grigi e bruni alle più audaci note dei bianchi, dei verdi, dei rossi, dei gialli, attraverso accostamenti franchi di toni che si accordano nei contatti e rendono perciò un senso di musica moderna, ardita ma armonica .
Meglio che con nostre parole desideriamo illuminare l’arte di questo pittore onesto e poderoso con le parole con cui egli stesso ha inaugurata una sua recente mostra di pittura, e con le quali concordiamo pienamente.
“Non si può affermare che le arti plastiche, oggi, attraversino una zona luminosa, che si manifestino con tutta la loro potenza. Ma è anche sbagliato affermare che il nostro sia un periodo di decadenza. La decadenza ha ben altri segni: ha la debolezza, la stanchezza; sente il bisogno di adornarsi di fronzoli confondendo la sostanza con l’apparenza, o per rimediare con questa alle deficienze di quella. C’è dello smarrimento, in arte.
Si sta formando una nuova coscienza artistica. Siamo quindi in un periodo di formazione, di trasformazione, di maturazione e, nell’affanno della ricerca, molti artisti guardano più agli altri che a loro stessi.
Qualcuno ha trascurato completamente la propria personalità e non ha più alcun contatto diretto con la natura.
Molti altri, perduto il coraggio e la fiducia in loro stessi, si sono virtualmente riuniti in gruppi, ingrossati da rimorchi di materia inanimata, che seguire e conseguire un ideale artistico che, per essere di troppi, è di nessuno e vanno avanti con gli occhi e la mente rivolti al loro battistrada.
E questo cerca, brancola, ma non cerca la sua via: cerca una via che lo conduca. Si serva di tutti i punti di riferimento, s’appoggia a tutti i sostegni, gira spesso gli ostacoli, lascia una via per l’altra … e il gruppo dietro.
Smarrimento, dunque, sì, ma decadenza no. No, perchè vi sono qua e là delle forze libere, le quali ci danno la sicurezza che il nostro secolo scriverà la sua bella pagina nella storia dell’arte.
Chi parla di decadenza non vede queste forze: confonde i tocchi rapidi e nervosi dell’artista che vuole esprimere un suo pensiero, con la pennellata arruffata e strafalciona dell’imitatore insufficiente, che ha messo insieme alla meglio qualche idea generata da emozioni ricevute di seconda mano.
Ma non c’è da stupire, del resto, se in una parte di pubblico succede tale confusione. L’attività deleteria dei falsi artisti è così abbondantemente sempre rappresentata ovunque, da soffocare tutto il buono che vi si trova in mezzo.
E si spiega anche come oggi l’arte, la pittura specialmente, abbia attirato molta gente, presentandosi come cosa facile.
Il virtuosismo del mestiere non occupa più uno dei primi posti nella scala dei valori artistici. L’artista non si contenta di dare alla sua opera la sensazione di vero. La natura manifestandosi non suggerisce: “ritrai questo che è bello”; dice invece:”prendi questo e fanne un’opera d’arte.” E l’artista coglie l’idea offerta, l’avvolge con le vibrazioni di tutte le sue parti sensibili, la elabora, facendone una cosa sua.
Quando poi all’idea, per essere tradotta in opera, per essere comunicata, occorre dare una forma e una struttura visibili e comprensibili, l’artista si abbandona alle sue qualità tecniche e compie un lavoro di vera riproduzione. Ma questo lavoro deve essere necessariamente rapido. Se si impegna eccessivamente nella soluzione dei vari problemi tecnici, se si abbandona alla descrizione eccessiva dei particolari ed alle minuzie degli effetti cromatici, l’artista corre il rischio di allontanarsi dall’idea, di snaturarla, di soverchiare, con un lavorio paziente e consumato, l’efficacia dell’espressione.
Perché l’opera balzi fuori con una carattere deciso, fresco, vigoroso, occorre che la mano segua immediatamente il pensiero e che questo, dopo una sufficiente elaborazione dell’idea, non si faccia influenzare da elementi estranei.
Ma, come un pensiero sincero lanciato con franchezza desta sempre le meraviglie od anche le ire di molti, l’opera balzata fuori con vigoria immediata, senza nessuno sfoggio di quell’abilità tanto cara agli artisti del passato, può sconcertare. Può irritare colori i quali, sempre estranei ad ogni manifestazione artistica, per non avere mai messo in moto né cuore né cervello, si sono abituati, ormai, a considerare arte soltanto l’arte espressa con quei voluti sistemi.
Può far gridare molta gente e può, anche, incoraggiare quelli che si sono messi a dipingere o a modellare senza sentire nessuna forza in loro se non l’ambizione di distinguersi dagli altri. Incapaci di sentire, questi cosiddetti artisti, hanno soltanto visto che la pittura e la scultura perdevano tutte le astruserie nelle quali anche le loro misere attitudini rimanevano affogate senza speranza e, convinti che l’arte possa orientarsi a destra o a sinistra con la volubilità della moda, hanno buttato via le vecchie formule per seguire le nuove tendenze. Naturalmente le opere di tali artisti non potevano altro rivelare se non la vanità dei loro esecutori: vanità e molto coraggio: il coraggio derivato dall’incoscienza, non confondibile con quello che scaturisce da un sentimento profondo da una convinzione personale e da una valutazione esatta delle proprie forze.
Ma sono appunto quelle opere che hanno stabilito l’atmosfera di pessimismo in cui oggi si ammala l’amore per l’arte. Però questo non avrebbe importanza. Se il momento attuale è buono per profittatori di ogni genere ci dà anche la promessa sicura che dal travaglio affannoso di tutte le forza valide sgorgherà limpida l’arte che potrà chiamarsi nostra. Ma affinchè ciò avvenga presto e più facilmente bisogna che tutti sentano il dovere di individuare e sostenere queste energie;, che tutti contribuiscano a far capire ai falsi artisti e ai loro sostenitori interessati che il campo dell’arte non è adatto alle rappresentazioni degli incoscienti e dei presuntuosi; che il campo dell’arte è un campo di battaglia dove si combatte si soffre e dove non c’è gioia vera se non quella prodotta dall’ardore del combattimento e del superamento.
Tutti dovrebbero prendere parte attiva alla battaglia dell’arte, perché alla vita degli artisti è legata quella dei loro contemporanei e l’arte lascia tracce eterne della vita dei popoli”.
Non si poteva essere più chiari, profondi, compiuti di così; e Bruno Cordati rivela in questa sua pagina come nella sua opera la serenità e sanità sostanziale del suo temperamento.
Bollettino di “Bottega d’Arte”, Anno X, Num. 8
Mostra collettiva: Bruno Cordati, Umberto Maestrucci, Corrado Michelozzi;
Livorno, Maggio – Giugno 1931 – IX
Rino Caras (Rino Carassiti): Bruno Cordati
Si trova in lui, guardandolo, una nota di freschezza fisica che contrasta con la severità della sua pittura. Par quasi che il Creatore abbia voluto vestirgli la bella e maschia persona d’un manto di chiarità, – appena arrivato da un’ombra malinconica che traspare dagli occhi ceruli e vivi, – perché più facilmente il suo vivere sostenga il peso grave del continuo travaglio intellettuale.
É un viso aperto, sul quale vedi ogni emozione, ma non leggi, come tu credi, i pensieri che vi si dipingono con ingenua comunicativa. Ti appare una fronte ampia, incorniciata da capelli più bianchi che grigi, che fanno riscaldare il contrasto di un aspetto ancor giovanile con la precoce pioggia candida che suole giungere col primo autunno dell’età. Hai davanti una figura salda, avara di gesti e di parole; non scabra ma rude; non voluta con imperio di nervi e di ragionamento ma sinceramente schietta.
É il barghigiano che mostra palesemente nei suoi tratti la fusione armonica che la natura ha compiuto degli elementi della media e dell’alta montagna nella sua terra: ove la soavità, opulenta di verde, della collina – divenuta procace, con l’altitudine, come una donna che abbia sentito correre il sangue reso più fluido dal fuoco dell’amore goduto – si stringe in amplesso ardente con la cupa ombra dei boschi e da questi, nella perdizione dell’ascesa inebriante verso il cielo, la montagna depone ogni veste porgendosi nuda al bacio del sole.
Esser nato in una terra tanto prediletta da Dio, fino a renderla nido di Poeti trasmigrati di Romagna, è stato per Bruno Cordati l’elemento primo di una sincerità assoluta; è stata l’ispirazione e la guida in un’arte che ha negato e nega ogni contorsione cerebrale.
Nato artista – col cuore e con la sensibilità di un artista – egli preferì tacere piuttosto che esprimere meditazioni non ancora compiute. Ci vollero gli anni di guerra per mettergli nell’intimo, chiuso ad ogni faciloneria istrionesca, il polline che facesse sbocciare il suo cuore e consentisse la fioritura trionfale della sua Arte per tanto tempo pensata. E i pennelli non furono più, come per ogni iniziante, strumenti di una tortura brancolante nell’inesprimibile per insufficienza di maturità, ma armi salde di uno spirito che combatteva nelle tele bianche la sua battaglia.
Ciò ha fatto sì che ricerca della “personalità”, da parte di questo artista febbrile, fosse immediata e che l’intuizione dei successivi sviluppi, dal canto, suo rapidissima. Egli iniziò – tanto aveva sognato e così intensamente – vestendo le sue opere d’una luce che pareva Il riverbero di un incendio vissuto, immergendo ambienti e figure in una dolcissima espressione malinconica che usciva dai segreti dello spirito con dolcezza incantevole e triste; poi, traverso la ricerca sempre più cruda delle passioni racchiuse nell’involucro carnale d’ogni persona, la pittura si fece più magra di colore e di espressione, cercando di esprimersi soltanto col gioco delle velature e con la crudezza del chiaroscuro.
Questa è l’arte di Bruno Cordati fino a tutto il 1927.
L’anno seguente sorge il suo sul suo orizzonte sconfinato un astro nuovo che lo incita sopra una strada che dovrà condurlo, poi di studio in studio, alla poderosa forma attuale. Il grigio tetro del carbone che ha marcato il disegno, lascia il posto alla sinfonia del colore; il sole entra a trionfale e invadente nei suoi studi; si ferma sulle sue opere e le violenta di luce.
I toni si scaldano e una fierezza nuova divampa. I quadri non sentono più la carezza aspra dell’uomo che vuole che sia in ciascuno di loro un po’ del suo testardo raccoglimento, ma soffrono e godono per l’unghiata prepotente dell’artista virile che vive uno stato continuo di esaltazione.
Poi la frenesia coloristica si acqueta di nuovo, si raccoglie ancora nell’intimità; ma ha portato con sé, in questo rientrare nel guscio, un’esperienza più umana.
Il sogno iniziale è divenuto realtà, e a questa si ispira, questa esprime, questa fa rivivere in una vigoria cromatica salda, sostanziosa, personalissima, che porta in breve ai risultati del “Ciabattino”, dell’”Attesa”, del “Nipotino”, di quei dolcissimi ritratti di fanciulli e di giovinette che sono il frutto di dieci anni di tenace lavoro.
Né sono estranei a questa metamorfosi i tentativi, profondamente meditati e pazientemente cercati, di dare alla tavolozza una composizione particolare, e che raggiungono l’audacia – nella quale un debole potrebbe trovare il baratro di una fine senza possibilità di resurrezione – di abolire il bianco in modo quasi assoluto, di comporre, con criterio logico, gli impasti, anche i più tenui, con colori naturali, scaldati dal caldo soffio dei bruni.
E neppure è estraneo il desiderio indomato e inesausto di salire ai vertici dell’esprimibile, costringendo la materia colore a soffrire il travaglio della materia carne sezionata per rivelare Il suo intimo.
Certo, che fra tanto correre servile di una turba avvilita e abbrutita dalla fame illusoria di notorietà, Bruno Cordati, artista sincero e personale, nemico di ogni dimostrazione di ossequio ai dettami che non sono della nostra tradizione maestra e del nostro spirito fecondo e fecondatore, porta una nota che solleva il cuore alla certezza che non tutta l’arte nostra è malata.
Egli che a Venezia e a Firenze, a Roma e a Torino, portò la freschezza pensosa del suo temperamento italiano, apre oggi il suo cuore, come già per il pubblico della Biennale e delle altre mostre, agli amatori che nelle Sale di “Bottega d’Arte” vengono a respirare l’ossigeno purissimo della poesia e della sincerità. Il barghigiano, che cedendo ai richiami lusinghieri dell’Arte, portò a questa innamorata che lo invocava la fermezza del suo carattere, la maschilità del suo temperamento, mostra agli occhi stupiti di chi sa vedere e penetrare le tele, quanto sia elevato il tormento di chi l’Arte vive senza pirotecnia di lenocinio; mostra ancora quanto vi sia sempre da esprimere pur con tanto di espresso dai maestri passati.
E lo stupore di mai lo conobbe – poiché Bruno Cordati stupisce e conquide per la chiarezza e l’elevatezza dell’Arte sua – si muterà poco a poco in dolce amicizia, poi in intimità: questo al momento preciso in cui il suo cuore di Artista sarà penetrato con tutta la sua buona dolcezza in quello amico dell’osservatore.
RINO CARAS
Rino Carassiti: La Mostra Personale di Bruno Cordati al <<Circolo Lucchese>>, articolo apparso su <<Il Popolo Toscano>>, 21 Dicembre 1930,
riportato sul catalogo della Mostra retrospettiva
BALDUINI CORDATI MAGRI VITTORINI
Barga, Sala delle Riunioni di Palazzo Pancrazi,
Comune di Barga, Estate 1980
Il <<Circolo Lucchese>> che ha fatto delle manifestazioni d’Arte un motivo di vita, apre questa mattina le sale per una Mostra personale di notevole valore. E’ quella che il barghigiano Bruno Cordati ha raccolto dopo dieci anni da che il pubblico lucchese non lo vedeva nel quadro generale della sua attività.
L’ultima <<personale>> di Bruno Cordati, risale ai tempi della <<Ars Lucensis>> – organizzazione artistica cittadina che pure nella sua effimera vita seppe acquistarsi meriti che ancora oggi servono a farla ricordare come una delle cose che sono riuscite a vivere oltre il tramonto ed hanno lasciato in retaggio memoria gradevoli.
Chi era il Cordati allora?
Si può adoperare senza pericolo di cadere nell’abusato un termine verso il quale il pubblico si volge con diffidenza: una rivelazione. Poiché d’improvviso, si presentò all’occhio del profano e dell’intenditore un artista che parlava allo spirito con una voce nella quale vibravano accenti diversi dai consueti, che esprimeva emozioni che sfiorando tutta la tastiera della sensibilità raggiungevano vertici più musicali e più elevati, senza uscire dalla sincerità della vita.
Cordati diventò allora – il pittore che solo da pochissimi anni aveva rotto ogni indugio e solo all’Arte aveva cominciato a dare tutto se stesso – l’Artista che si vestiva con gli abiti dell’eccezione e che nella sua strada avrebbe saputo compiere cose degne di nota.
Non per fare della cronaca ho voluto ricollegare l’avvenimento di oggi a tempi trascorsi, ma per dire in modo migliore quanto e quanto cammino è trascorso da allora per l’uomo e per l’Artista, che nel travaglio continuo della ricerca, ha in dieci anni segnato il suo lavoro con tre cicli determinati, che si distinguono in tre <<maniere>> diverse.
Contrario ad ogni corrente ispirata alla moda dominante – ogni lustro, quasi ogni anno, direi, ha una sua <<pittura>> che furoreggia – Bruno Cordati ha dovuto faticare non poco per trovare il <<tono>> suo; quel suo personale modo di esprimere che vestisse con sifficiente aderenza il suo tormento spirituale e intellettuale.
In questa Mostra Bruno Cordati si presenta al pubblico con un complesso di opere che rivelano una tecnica personalissima e che impongono l’attenzione più intensa a chi, per abitudine manierata, usi sorvolar su l’Arte come una farfalla su un fiore.
Questo articolo che non ha compiti di critica vuole dire però ben altre cose. E fra queste, che l’Arte di Bruno Cordati si trova in completo, dopo un lungo periodo di successi anche alla Biennale veneziana, con le Giurie dell’Esposizioni ufficiali.
La ragione di questo improvviso mutar di vedute da parte di consessi che in fatto di competenza dovrebbero tener lezioni in cattedra, stupisce, direi quasi, impressiona, perché Bruno Cordati, anche all’occhio del più serafico vivente che guardi all’arte per il solo godimento che dà e non per far paragoni o macerarsi il cervello in profondissime indagini, offre con le sue opere qualche cosa di elevato, di robusto, di pensato, di vissuto, di studiato, di poderoso, che fa andar col pensiero qualche gradino più in su del livello normale della pittura.
Segreti delle Commissioni giudicatrici. Inviolabili.
Quasi esclusivamente per questa ragione, Bruno Cordati che ha sempre guardato alla natura più semplice delle cose, ha voluto rivolgersi al pubblico che sa giudicare serenamente, spontaneamente, senza preconcetti, fuori dal gioco alterno delle combinazioni nelle quali spesso abbonda la punta inquinata dell’affarismo.
A quel pubblico, che senza essere spinto da pressioni o da raggiri compiacenti, andò a Barga ad acquistare sue opere in una Mostra ed allo studio a ordinargli dei ritratti, a chiamarlo fuor del suo guscio per lavori di mole e di altissimo valore.
Ogni qualvolta Bruno Cordati ha tentata la sorte di una Mostra personale, ne è uscito completamente soddisfatto. Né può mancargli soddisfazione a questo nuovo tentativo, del quale il <<Circolo Lucchese>> ha preso quasi il patrocinio morale, poiché il pubblico che non ha già da giudicare un novizio, un ignoto, ma un reputatissimo ritrattista, che ha la sua firma in quadri passati dalle mostre di Roma, Venezia, Torino, Firenze spargendosi da ogni parte; un pittore che è vanto nostro perché in un angolo di questa nostra terra vive, ma che col suo nome ha varcato molte distanze.
RINO CARAS
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Mostra The Enchanted Land – Puccini’s landscape lights and colours, Glasgow, Mitchell Library15, th April to 19th June 2004, Curator: Umberto Sereni, Art Consultant: Filippo Bacci di Capaci
Per una riscoperta dell’attività di Bruno Cordati decoratore, vedi La Nuova Barga, Architettura e arti decorative tra Liberty e stile eclettico (1900 – 1935), a cura di Cristiana Ricci, Fondazione Ricci ETS, 2022
Mostre personali e collettive
1921
Mostra collettiva permanente, Lucca, Istituto Pacini
1922
Mostra personale, Bagni di Lucca
1923
I Mostra Regionale dell’Arte e dell’Artigianato, Lucca, Casino dei Nobili
1925
I Mostra d’Arte bardigiana, Barga
1926
IV Mostra di Primavera, Livorno, Bottega d’Arte
1927
XCII Esposizione degli Amatori e Cultori di Belle Arti, Roma
II Esposizione Internazionale di Belle Arti, Fiume
1928
Esposizione Nazionale di Belle Arti, Torino
XVI Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia
1929
Mostra della “Settimana Lucchese” , Lucca, Palazzo Ducale
II Mostra d’Arte barghigiana, Barga
1930
IV Mostra Regionale d’Arte toscana, Firenze
1930 – 1931
Mostra personale, Lucca, Circolo Lucchese
1931
II Mostra Provinciale d’Arte, Lucca, Palazzo Comunale
Mostra personale, Livorno, Bottega d’Arte
Mostra personale, Barga, Palazzo Comunale
Mostra personale, La Spezia, Casa d’Arte
1932
Mostra personale, Lucca, Circolo Lucchese
Mostra personale, Viareggio, Kursaal
1934
Mostra personale, Lucca, Circolo Centro
I Mostra Estiva Viareggina, Viareggio, Kursaal
1935
Mostra dell’Arte e dell’Artigianato barghigiano, Barga
1937
IV Mostra Sindacale d’Arte, Lucca
1945
Mostra Provinciale d’Arte, Lucca
1946
Concorso Nazionale di Pittura “Premio Prato”, Prato, Collegio Cicognini
1947
Mostra d’Arte barghigiana, Barga
1978
Arte a Lucca 1900 – 1945, Lucca, Palazzo Mansi
1980
Mostra retrospettiva, Barga, Palazzo Pancrazi
1983
L’Eroica. Una rivista italiana del Novecento, Genova, Palazzo dell’Accademia
1985
Mostra antologica, Barga, Palazzo Bertacchi – Cordati
1987
Mostra antologica, Firenze, La Nuova Strozzina
1988
Mostra antologica, Pisa, Palazzo Lanfranchi
1990
Mostra antologica, Sofia, Galleria d’Arte presso la Fondazione Internazionale “Santi Cirillo e Metodio”
Mostra antologica, Plovdiv (Bulgaria)
1991 – 1992
Mostra antologica, Barga, Galleria il Marzocco
1993
Pittori di Barga alla Biennale di Venezia, Barga, Palazzo Pretorio, Loggetta del Podestà
1993
Mostra antologica, Bergamo, Galleria Fontana del Delfino
2004
Mostra collettiva Puccini landscape lights and colours, Mitchell Library, Glasgow